Desiderio di spensieratezza e voglia di ridere, questi i sentimenti che oggi animano la maggior parte di noi e che una volta riconquistati difficilmente riusciremo a lasciar andare. A due anni dall’evento pandemico che ha sconvolto e rivoluzionato le esistenze e gli equilibri universali privandoci anche del piacere di godere delle arti, riscopriamo il gusto di essere spettatori della commedia a teatro.
È con Hollywood Burger, l’esilarante commedia di Roberto Cavosi, in scena al Teatro Duse di Bologna dal 26 al 28 novembre, con protagonisti Giobbe Covatta e Pino Quartullo, che riconquistiamo la nostra meritata ripartenza.
La commedia, dalla trama esilarante e dal violento e paradossale finale, è ambientata in una mensa per artisti negli Studios di Hollywood. Leon e Burt, due attori mitomani, assolutamente alla deriva ma tenacemente aggrappati al sogno del cinema, se ne dicono e ne fanno di tutti i colori, spalmando sui loro hamburger senape, maionese, ketchup, con un fare convulso e ingordo come la loro voglia di far parte, in un modo o nell’altro, della magia di Hollywood.
Pino Quartullo ci racconta la pièce, da lui stesso diretta.
A due anni di distanza grande ritorno al Teatro Duse al quale sei affezionato
«Il Duse per me è un luogo familiare, la prima volta che andai avevo circa quindici anni, accompagnavo mio padre, ingegnere, alla fiera dell’edilizia, e già a quell’età ero malato di teatro, ricordo che mi portò al Duse per vedere Arnaldo Ninchi che a quel tempo faceva ‘Non si sa come‘ di Pirandello. Negli anni ci sono tornato come attore diverse volte anche con il ‘Deus ex machina‘ di Woody Allen. Il Duse è un teatro a cui sono molto affezionato e ritornarci con questo spettacolo mi fa particolarmente piacere. E poi il pubblico di Bologna è molto caloroso, sono sicuro che coglierà i diversi gradi di lettura di questo testo, perché fa ridere ma ha anche una linea beckettiana di ‘Aspettando Godot‘ e di ‘Giorni felici‘. Dico Godot perché il mio personaggio aspetta Jack Nicholson, dopodichè io e Covatta dovremmo mangiarci dei panini enormi, degli hamburger pazzeschi, però esitiamo perché sono senza sapore. Un po’ come le nostre carriere, la nostra vita e i nostri amori, e allora li rimpinziamo per tutto lo spettacolo con le salse più assurde e strane.
È questa una metafora della vita?
«Sì, diciamo che è una fantasia, se vogliamo è una metafora della vita, è un’astrazione teatrale, e in questo è bello il fatto che entrambi (Giobbe Covatta nel ruolo di Burt Burt e io di Leon Persi) nella storia della commedia abbiamo partecipato a tantissimi film, lui è sempre stato tagliato, e ti assicuro che nella realtà succede ed è successo anche ai grandi attori, mentre io, invece, sono irriconoscibile perché ho interpretato ruoli nascosti come l’ominide che tirava l’osso in ‘Odissea 2001 nello spazio‘ che poi diventava un’astronave, nel ‘Pianeta delle scimmie‘ facevo un orango, poi ho interpretato uno zombie e quindi sempre irriconoscibile, poi ho fatto lo spermatozoo in ‘Tutto quello che avreste voluto sapere sul sesso ma non avete avuto il coraggio di chiedere‘ di Woody Allen» e qui c’è anche l’interrogarsi sul come interpretare lo spermatozoo. In sostanza tutte le volte si aprono parchi su questi personaggi, sul perché siano stati tagliati e sul perché non erano visibili. Il tutto è abbastanza divertente e poi ci raccontiamo anche delle nostre vite, lui di suo fratello, io di mia moglie, vite difficili che nella tragedia fanno sempre ridere nonostante la drammaticità delle esperienze. E assomigliano un po’ alla vita di tanti che avrebbero voluto di più dalla vita ma che non hanno ottenuto, quindi per il pubblico è molto consolatorio vedere qualcuno a cui è andata peggio».
Nella commedia c’è molto di reale
«Diciamo che ogni attore si riconosce in questi due attori-personaggi, perché tutti noi avremmo voluto di più e sentiamo di meritare di più, poi c’è un momento di sfogo, una reazione violenta, un finale quasi tarantinesco. Se ci pensi nel film ‘C’era una volta Hollywood‘ Leonardo DiCaprio interpreta un attore sfortunato che è realmente esistito a cui si è ispirato Tarantino, quindi c’è questa osmosi tra Tarantino e la nostra storia che è divertente. Naturalmente – precisa – la commedia è stata scritta prima del film però casualmente l’argomento è per certi versi quello degli attori che non ce l’hanno fatta a Hollywood. È anche un’occasione di viaggio nel cinema, nel corso della commedia entrambi citiamo dei film e ogni volta che lo facciamo si aprono dei link con una rievocazione di musiche e di luci proprie di quei film. Soprattutto è interessante immaginare delle parti di questi film che non si sono viste e che avrebbero potuto esserci».
Da qui la frustrazione di Leon e Burt
«E sai perché? La frustrazione può essere di tutti, il giornalista vorrebbe essere Giorgio Bocca, il cantante vorrebbe essere Mina, lo scienziato vorrebbe essere Zichichi, però il lavoro che più di tutti presuppone il successo è l’attore. Questo perché è sentire comune che chi fa l’avvocato non necessariamente deve diventare il professionista più bravo d’Italia, mentre l’aspettativa cambia se si guarda a chi fa l’attore, qui si presume che la bravura sia commisurata al successo e purtroppo non è sempre così, ci sono attori non propriamente straordinari che hanno avuto successo mentre altri seppur straordinari sono rimasti nell’ombra. E questo è un mondo che si presta ad essere esemplare per le frustrazioni di tutti».
Questa commedia ha segnato la vostra ripartenza a teatro
«Sì, ha fatto ripartire molte stagioni di altri teatri e devo dire che con le successive repliche abbiamo avuto la conferma che il teatro, con tutti gli accorgimenti del caso, è un luogo sicuro ed è bello vedere come il pubblico ha bisogno di venire a teatro e voglia di rivedere delle storie, di riconoscersi, di ritrovarsi insieme e ridere insieme perché uno spettacolo visto senza pubblico è un altro spettacolo».
Il pubblico vi dà la carica
«Questo spettacolo in particolare, perché vive proprio di botta e risposta con il pubblico. Ha più letture e con le sue sfumature in qualche modo evidenzia l’ironia di alcuni momenti, e quando c’è il pubblico che ride anche se non comprende la battuta ma capisce che quella è una cosa comica e ride ugualmente, ecco, tutto questo, di riflesso aiuta molto quella parte di pubblico che nell’immediatezza non coglie la comicità. E poi Roberto Cavosi è un autore contemporaneo e siamo felici di portare un’opera italiana. Difficilmente si fanno opere italiane, si fanno sempre titoli famosi perché sono più facili e più vendibili, invece noi abbiamo voluto investire su questo testo nuovo. Quest’anno in tournée per l’Italia porterò in scena altri due lavori di autori Italiani, ‘Buoni da morire‘ di Gianni Clementi mentre a Trieste ‘L’isola degli idealisti‘ di Giorgio Scerbanenco. Sono contento di portare in scena due autori contemporanei, tra l’altro con Clementi siamo amici e stavamo in classe insieme in Accademia. Ho frequentato una classe piena di scrittori importanti, c’era Margaret Mazzantini, Wanda Marasco finalista al Premio Strega, Luca di Fulvio, io stesso ho scritto sceneggiature, Roberto Cavosi, Sergio Pierazzini. E questa è la prova che poi le scuole di teatro servono a noi attori ma fanno bene a tutto, fanno bene per la vita, ci si conosce di più e soprattutto si conosce meglio se stessi, si impara a comunicare meglio. Un corso di teatro andrebbe fatto da tutti come percorso di crescita».
Il titolo ‘Hollywood Burger’ ha un particolare significato?
«Hollywood Burger lo colleghi subito ad un fast-food americano cosa che poi è anche la scenografia, è la mensa degli attori di Hollywood. Il titolo di per sé dà l’idea della commedia dove gli hamburger sono i protagonisti, in scena siamo sempre con gli hamburger e le salse in mano. Lo spettacolo ruota attorno agli hamburger e parte con noi due che li stiamo mangiando. A Cinecittà c’è un posto molto simile, un bar dove stazionano attori, comparse, registi che sperano di incontrare qualcuno che possa poi sondare il proprio lavoro».
Durante la pandemia il lavoro si è fermato?
«No, ho continuato a lavorare facendo dei laboratori teatrali, ho scritto delle sceneggiature, ho lavorato anche come attore protagonista in due cortometraggi di Massimo Cappelli. Il cinema contrariamente al teatro ha continuato a vivere».
Artista poliedrico e collaborazioni con i grandi nomi dello spettacolo
«Sì, ho avuto questo privilegio. Ho avuto grandi maestri, da Monica Vitti a Gigi Proietti, Mauro Bolognini, Andrea Camilleri, Alberto Sordi, Vittorio Gassman».
Hai citato Gigi Proietti, puoi raccontarci qualche aneddoto?
«Sono nato con Gigi perché ho iniziato con lui nel 1979 con il Laboratorio al Teatro Brancaccio, ci affacciavamo alla professione mentre lui faceva prima Gaetanaccio e poi Il Bugiardo. Ci ha portato in tournée e recitavamo con lui, facevamo degli sketch, delle scenette comiche che avevamo studiato al Laboratorio, e poi in televisione dove abbiamo debuttato con Attore amore mio, Fantastico 4, poi mi ha scelto come protagonista per tre spettacoli a Brancaccio quando aveva ripreso la direzione artistica del teatro. È stato mio testimone di nozze, era il mio amico, era tutto. Nessun altro è stato così maestro e così intimamente amico come è stato Gigi. Ancora adesso per me è dolorosissimo che non ci sia più».
Una sua frase, un insegnamento che tutt’oggi osservi e custodisci?
«Una cosa che ci diceva quando facevamo il Laboratorio era ‘fate gruppo‘, cioè sceglietevi, e questa è una frase che mi ha detto in Accademia (Accademia Nazionale D’Arte Drammatica Silvio D’Amico) anche Aldo Trionfo, altro grande regista. Ossia, le scuole di recitazione servono anche per scegliersi, crearsi un gruppo di lavoro per fare le cose insieme, perché altrimenti l’attore da solo è una sorta di mina vagante che gira e spera di essere scelto, invece se fai gruppo e se hai dei progetti, hai delle idee e crei delle cose tue puoi farti vedere all’opera in quello in cui credi di poter eccellere, mentre, se vieni scritturato, spesso vieni preso per fare dei ruoli che magari non ti interessano o non ti valorizzano. Quindi fare gruppo e scegliersi è molto bello e questo è anche quello che insegno. Al tempo ricordo, nel 1983, feci gruppo con quelli dell’Accademia e fondai la mia compagnia, realizzammo tanti progetti tra i quali, grazie a Monica Vitti che ci diede questa opportunità, il cortometraggio Exit che ottenne la nomination all’Oscar. Monica Vitti invece ci diede un altro consiglio, di studiare sì ma di lavorare anche sui propri difetti, lei che della sua voce rauca fece un vessillo del suo talento. Per cui avere una caratteristica, una peculiarità o un difetto a volte è vincente».
HOLLYWOOD BURGER
con Giobbe Covatta e Pino Quartullo
Teatro Duse di Bologna, via Cartoleria 42
dal 26 al 28 novembre 2021| sab. ore 21 dom. ore 16