“Gli occhi di Vivian Maier. I’m a camera”, intervista a Roberto Carlone

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Si chiude sabato 13 aprile la stagione del Cinema Teatro Moderno di Savignano sul Rubicone con lo spettacolo Gli occhi di Vivian Maier. I’m a camera, di e con Roberto Carlone. Per l’occasione, abbiamo parlato dello spettacolo con il regista.

Come è nata l’idea di fare uno spettacolo su Vivian Maier?

L’idea di questo spettacolo nasce dalla mia passione per la fotografia, che negli ultimi cinque anni mi ha coinvolto, un po’ come fotografo e un po’ come appassionato e curioso. Ad un certo punto mi sono imbattuto nel fenomeno di Vivian Maier che ha sorpreso tutti quanti. Le sue fotografie mi hanno toccato in maniera particolare perché ho trovato una sorta di corrispondenza con quello che era il mio modo di fotografare. È difficile da spiegare, però è una sensazione molto personale, una sorta di fratellanza, che consiste nello scoprire di sentire allo stesso modo le persone, i soggetti da fotografare, ma anche tecnicamente i bianchi e neri, che mi hanno sempre emozionato molto di più di altre fotografie. L’idea era quella di preparare una sorta di conferenza che poi poco alla volta si è trasformata in spettacolo, perché sono successi un po’ di fatti strani. Il primo è stato quando mi sono recato a Milano per andare a vedere la mostra di Vivian Maier e ho scoperto che la stavano smontando e il materiale era già rinchiuso in casse da portare via. Dicono che Vivian Maier amasse molto giocare con le persone, scherzare, prenderle in giro e questo evento a distanza di dieci anni si può interpretare un po’ come un suo scherzo. La stessa cosa è successa quando sono andato a visitare il paesino dove lei ha trascorso l’età scolare in Francia: era il primo di maggio ed è arrivata una nevicata e siamo rimasti bloccati nel giro di 10 minuti da mezzo metro di neve. Questo è stato il secondo scherzo di Vivian Maier che in qualche modo stava dicendo “Non mi toccate”. Allora mi sono detto “Se allora deve essere una sfida, io questo spettacolo lo porterò avanti e lo farò al meglio”.

Come si è svolta la ricerca di informazioni per la sua realizzazione?

Ho cominciato a scrivere e a documentarmi. Ho fatto un viaggio a Chicago per visitare i luoghi in cui lei era stata e in questo percorso ho conosciuto delle persone, prima di tutti Caterina Cavallari che è anche l’aiuto regista e la persona che mi ha seguito in questa ricerca. Poi ho conosciuto le persone dell’Associazione Vivian Maier et le Champsaur, un’associazione francese di questo piccolo paesino di 300 abitanti dove lei ha abitato negli anni Cinquanta, che mi hanno aiutato soprattutto facendomi scoprire il lato più umano di Vivian Maier. Di solito lei viene presentata come una maniaca, un’accumulatrice seriale, una schizofrenica, una persona insopportabile e invece io sono convinto che non lo fosse, perlomeno non principalmente.

Quindi è proprio un ritratto umano di donna e di artista che emerge dallo spettacolo?

Si esatto. Vivian Maier era soprattutto una donna e una fotografa che faceva la bambinaia per cercare di stare un po’ al di fuori dei meccanismi della fotografia. Lei è sempre stata libera sostanzialmente: non avendola mai fatta diventare una professione, non ha mai avuto un editore o un agente che le diceva cosa fare. È sempre stata molto libera, per cui si è sempre scatenata. È un personaggio molto complesso, molto particolare. Nella realizzazione dello spettacolo mi accompagnano molte donne, come Françoise Perron, Sara Munari, Caterina Cavallari e tante altre e perciò si tratta di lavoro in particolare sull’anima femminile della fotografia. In fondo, è stata proprio la fotografia che ha permesso alle donne di avvicinarsi a un’arte, sviluppandosi proprio nel periodo in cui le donne cominciavano a prendere un po’ più di libertà e diventare quello che desideravano. Lo spettacolo testimoni anche questa nuova scoperta sulle donne.

Lei interpreta più personaggi all’interno dell’opera. Perché questa scelta?

L’idea dei quattro personaggi è soprattutto nata per alleggerire lo spettacolo ed evitare di trasformarlo in una conferenza dove io parlavo per un’ora e mezza e facevo vedere le fotografie. Poi perché, ad un certo punto, mentre stavo scrivendo, mi è venuta come un’illuminazione: per riuscire a capire bene le fotografie di Vivian Maier dovevo entrarci dentro. Questo mi ha aperto un ampio ventaglio espressivo: infatti io entro dentro le fotografie e interagisco con loro. Ad esempio, nella fotografia dell’edicolante addormentato, mi sono messo al posto dell’edicolante, indovinando i pensieri che si potrebbe esser fatto quest’uomo, improvvisamente svegliatosi, come mi piace immaginare, dopo che lei gli ha scattato la fotografia. In questo lavoro mi ha aiutato molto la mia passione per la tecnologia, quella semplice e di tipo umano, che mi ha aperto delle possibilità sul modo di raccontare, vale a dire quello appunto di entrare dentro le fotografie. Inoltre, Vivian Maier amava tantissimo farsi gli autoritratti, quelli che adesso corrisponderebbero – anche se un po’ diversi – al selfie, e spesso lei fotografava la sua ombra: allora ho pensato di cancellare la sua ombra dalle fotografie e metterci un’animazione che la rendesse viva, la facesse muovere, chiacchierare e dialogare con me. Ad esempio, tra le sue fotografie ce n’è una scattata nel suo laboratorio di fotografia, nella camera oscura che aveva creato in bagno, dove io inserisco l’ombra di Vivian Maier che sviluppa una sua fotografia. Insomma, la animo e le do vita. Un altro personaggio che interpreto è realizzato in cinema d’animazione e fa le veci di Jeffrey Goldstein, quello che ha scoperto e ha commercializzato le fotografie di Vivian Maier in maniera massiccia: una persona a cui dobbiamo dire grazie perché ha lavorato tantissimo sulla diffusione, anche se forse ha esagerato un po’ commettendo parecchie violenze nei confronti di Vivian Maier. Infine, c’è un altro personaggio, quello del fotografo che si pone domande sulla fotografia, sulla luce, fin dove ci si può spingere a fare fotografie, quanto si può entrare nelle vite delle altre persone, come ha fatto Vivian Maier, che arrivava in maniera empatica addosso a queste persone quasi come per abbracciarle. In tutto questo, sul palco ho una testiera, che suono per commentare le fotografie.

A proposito di questo, essendo lei  anche un musicista, che ruolo ricopre la musica in questo spettacolo?

Ho penato un po’ tutto lo spettacolo come se fosse un film: il montaggio è molto cinematografico perciò si passa da una scena a un’altra e poi ci sono tanti salti temporali, come al cinema, per entrare e uscire da una scena all’altra, da un personaggio all’altro. La musica diventa in certi momenti il collante e in altri momenti accompagna proprio, come se fossi il pianista di un film muto, le immagini e le animazioni.

Per concludere, qual è dunque l’obiettivo ultimo dello spettacolo?

Il grande lavoro che stiamo facendo è quello di rivalutare. Vivian Maier è piuttosto conosciuta, ma l’obiettivo non è tanto quello di rimarcare l’aspetto più scandalistico della sua vita – e la storia delle sue 150 mila foto mai sviluppate, quanto quello di rivalutare l’aspetto della fotografa. Lo spettacolo invita a cercare di considerare Vivian Maier come una fotografa e una donna, con tutta la sua sensibilità decisamente molto più avanti di quello che era la fotografia commerciale dell’epoca. Si tratta anche di un discorso sul tempo: le foto da lei scattate vanno fatte risalire principalmente tra gli anni Cinquanta e Settanta, ma vengono scoperte solo nel 2010 dopo la sua morte. Così, questo tempo passato che viene riportato in vita diventa un po’ il protagonista. A pensarci bene in effetti, la fotografia è un’arte fatta con il tempo, che ferma un momento. Quindi lo spettacolo cerca di attraversare questo tempo in maniera trasversale.