Mission: Impossible – Rogue Nation: il cinema-Risiko

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MI-5 1Dopo gli incassi discreti ma non esaltanti di Oblivion (2013) e Edge Of Tomorrow (2014), due avventure fantascientifiche degne di miglior fortuna, Tom Cruise ritorna alla sua franchise più redditizia degli ultimi anni, quella basata su di una serie televisiva dei Sessanta e anche oggi puntualmente accompagnata dal celeberrimo tema per fiati e tastiere composto in 5/4 dal pianista argentino Boris “Lalo” Schifrin. Il quinto capitolo della serie Mission: Impossible, a quasi vent’anni dal prototipo girato da Brian De Palma nel 1996, stilizzando fino al parossismo i film di spionaggio di tre decenni prima, non modifica la sostanza dei capitoli precedenti, dai quali riprende la frenesia e l’inverosimiglianza delle scene d’azione, le peregrinazioni lungo tutto il pianeta e i continui aggiornamenti tecnologici, nonché, forse soprattutto, la sconfortante pochezza di contenuti e le velleità esibizioniste del divo protagonista. Nei panni di Ethan Hunt, stavolta ostacolato anche dalla CIA e nondimeno chiamato a sgominare il cosiddetto «Sindacato», fantomatica organizzazione trans-nazionale di criminali intenti a promuovere guerre civili o incidenti diplomatici per guadagnare sul traffico delle armi, Cruise assomiglia sempre di più a un incrocio tra Steve McQueen e Burt Reynolds, ma pur esibendo ancora, all’età di 53 anni, una muscolatura assai elastica e una certa dose d’ironia, e pur continuando a partecipare in prima persona alla maggior parte degli stunt, non possiede né la pericolosità sociale del primo né il machismo anarcoide del secondo, sicché non riesce a non ricordare per l’ennesima volta il bambolotto conservatore dei tempi di Top Gun (del quale, tanto per non farsi mancare nulla e solleticare il pubblico coetaneo dell’attore, è appena stato messo in cantiere un sequel). Rispetto agli altri episodi della saga, ciascuno almeno riconoscibile, malgrado la complessiva evanescenza, per il tocco di registi e sceneggiatori, Rogue Nation sembra una filiazione dell’ultimo Protocollo Fantasma (Mission: Impossible – Ghost Protocol, 2012), ossia il migliore dei cinque film sin qui confezionati (ma non ci voleva molto), con la mano e la scrittura del regista Christopher McQuarrie a soffiare tra le immagini un po’ di ruvidume action in più (anche la fotografia finto-sudicia del peraltro bravissimo Robert Elswit, uomo di fiducia di Paul Thomas Anderson, va in questa direzione), adrenalina sopra le righe e qualche sentimentalismo da salotto.

MI-5 2Malgrado pezzi di bravura come il doppio attentato all’Opera di Vienna, durante una rappresentazione della Turandot (come la principessa pucciniana, anche Rebecca Ferguson, agente rinnegata dell’intelligence britannica, usa un oggetto dal potenziale letale in qualità di fermaglio per capelli, e cioè una chiavetta USB…), o lo scambio in apnea di una scheda dati conservata all’interno di una centrale elettrica subacquea, e nonostante la bella atmosfera del fulmineo prologo (Hunt entra in un negozio di vinili chiedendo informazioni su di un album con John Coltrane al sax, Thelonious Monk al piano e Shadow Wilson alla batteria, ovvero Thelonious Monk With John Coltrane [1961]; appoggiando il 33 giri sul piatto e facendo pressione con la mano si imbatte in un messaggio segreto), da McQuarrie (nel 1995 premio Oscar per il copione dei Soliti Sospetti [The Usual Suspects]) ci si aspettava qualcosa più del solito intreccio di pedinamenti e inquadrature acrobatiche, terroristi e protesi facciali. Qualcosa in più, in particolare, di una risibile apologia dell’intervento yankee in situazioni di criticità internazionale: se Rogue Nation può essere tradotto con «stato canaglia», lo spettatore è invitato a dedurre che ogni controversia, essendo nel frattempo diventato «canaglia» il mondo intero, possa essere risolta dai metodi spicci di Hunt e della sua agenzia – la Impossible Missions Force (IMF) – ricorrendo a procedure altrettanto “canagliesche” o, come si dice nel film, desperate measures for desperate times («soluzioni estreme per un’epoca estrema»). Nessun problema, insomma, neanche quelli più scottanti e legati all’attualità (a un certo punto si fa riferimento all’aereo malese scomparso nell’arcipelago delle Andamane), è troppo ingarbugliato per non essere risolto con un inseguimento per le strade di Casablanca a bordo di una BMW o in sella, senza casco, a una motocicletta della stessa marca. Le contaminazioni tra servizi deviati, in M:I 5, restano all’interno del Patto Atlantico (la nascita stessa del Sindacato si scopre attribuibile all’operazione non autorizzata di un alto papavero del controspionaggio inglese), e d’altronde, con Alibaba – il colosso asiatico del commercio elettronico – tra i principali finanziatori del film (che, infatti, batte bandiera cinese e hongkonghese), sarebbe stato inopportuno coinvolgere personaggi orientali nel complotto rocambolescamente sventato da Hunt. Sono passati vent’anni, si diceva, dal primo Mission: Impossible e ben trenta dal citato Top Gun, ma almeno in una cosa il cinema hollywoodiano, al di là dell’inossidabile efficacia spettacolare, non è cambiato affatto: quando sceglie di affrontare, anche in toni piuttosto blandi, i temi della geopolitica, continua a farlo come se partecipasse a un gigantesco gioco da tavolo dove il concorrente più forte (non necessariamente il vincitore) è quello con la pedina più appariscente.

Gianfranco Callieri

MISSION: IMPOSSIBLE – ROGUE NATION

Christopher McQuarrie

Usa / HK / RC – 2015 – 131’

voto: **