The Babadook… dook dook dook

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babadook

Partirò dicendo che chi cerca in Babadook una nuova sorgente dell’horror, una new wave femminile all’orrore o, addirittura, chi vede in Babadook un film horror tout court ha completamente sbagliato strada.

The Babadook è un film che si apre sul sogno di una donna, sulla ricerca di questa donna di raccogliere se stessa attorno a due fatti tragicamente interconnessi ma non conseguenti: è diventata madre, è diventata vedova. Non è diventata madre perché è diventata vedova ma si è convinta di essere diventata vedova perché è diventata madre. Questa sicurezza la percepiamo non tanto in quello che fa ma perché, ben due volte, suo figlio ripete a estranei che suo padre è morto mentre accompagna la madre in ospedale per il parto. Presa di coscienza, da parte del bambino, che non può essere altro che un filtrato dei racconti materni. Significa, cioè, che la madre, la protagonista del film, nei sette anni che precedono l’apertura del libro Mr. Babadook (ci torneremo, su quel “Mister”) e della vicenda, non ha fatto altro che ripetere, a mo’ di mantra, che il figlio ha in qualche maniera condizionato la sua vita di donna, di moglie e di amante. Questione che il ragazzino, piuttosto tormentato e iperattivo, continua a stratificare: chiede alla madre un conforto serale, dorme con lei di notte, la rassicura sulla reciproca protezione e le blocca un orgasmo con urla da assatanato. Tutta la prima parte del film, fino al primo twist di sceneggiatura (la crisi isterica del figlio che la costringe a prendere coscienza di un reale problema) è giocata su questo tentativo di elaborare un lungo lutto da parte della madre. Un’elaborazione resa drammatica, e sfilacciata, dalla presenza del figlio a cui lei è costretta a dare affetto, conforto e dimensione. Affetto che, in qualche modo, risucchia come un gorgo inestricabile di dolore (il ripetere che “la colpa è sua” sebbene non così evidentemente) in una sorta di do ut des di reciproca punizione; conforto, che il figlio chiede alla notte per paura dei mostri (autogenerati anche dalla colpa per la morte del padre) e che lei chiede a lui ma che da lui non può ottenere perché non è il suo ruolo, nel gioco della coppia; dimensione perché, nel momento della presa di coscienza della solitudine, è la figura del figlio che in qualche modo sostituisce quella del marito, in una sovrapposizione di parti che non può reggere alla distanza.

E qui arriva Mr. Babadook, un libro che è anche, però, il terzo angolo dell’impossibile triangolo famigliare: la madre, il figlio e una sorta di “spirito malvagio”, quasi a rimescolare le carte evangeliche per restituire allo spettatore l’epitome del disastro del “nucleo perfetto”: la famiglia, già fuori asse a causa dell’incidente, perde ancor più equilibrio nel tentativo di acquistare una propria forma nucleare. Il Signor Babadook, quindi, non è il babau dentro all’armadio ma è il padre ombra, è lo sconosciuto che porta nella perfezione del due (madre-figlio) l’instabilità di un terzo invisibile e inafferrabile perché “buio”. E il tutto esplode proprio quando la madre cerca di aprire la propria vita al collega, che arriva una sera ma subito sparisce, perché non accolto. Il Babadook, invece, si instaura (let me in) proprio perché inestricabilmente legato ai desideri di entrambi: il figlio lo cerca perché giustifica così la presenza della madre nel proprio letto (e la sua nel letto di lei), la madre lo cerca perché ha bisogno di essere “penetrata” per poter tornare a vivere.

La nuova struttura, però, si fa elastica perché dal buio il Babadook emerge e si fa portatore di un’immagine di sé che non è chiaramente accettabile. E soprattutto non è socialmente logica: così il bambino viene isolato perché ha un Babadook e non un padre (la bimba glielo ricorda in modo inequivocabile e finisce faccia in terra) e la madre crolla in un gorgo di dolore e delirio da cui riesce a uscire solo grazie al ricongiungimento con il proprio bambino. L’orrore finisce nel momento in cui il triangolo si spezza e il nucleo torna duale, torna quello di partenza. E finalmente la madre accetta la morte del marito e può ripartire a ricostruire se stessa nel ruolo che il fato le ha destinato.

Il Babadook dunque non è un babau perché la sorgente non è esterna, non è l’armadio, ma è interna. L’armadio è una proiezione del ventre materno, da cui viene espulsa la colpa di essere madre e di essere vedova.

Per questo il Babadook non può, e non vuole essere un film dell’orrore: è certamente una commedia nera, un proiettore acceso su una famiglia in cerca del proprio centro d’equilibrio.