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Io non sono capace.
L’ho scritta e riscritta molte volte, questa paginetta. Ogni volta cancellare, ricominciare da una diversa prospettiva.
E dire che, scrivere di opere altrui, sono abituato.
Eppure certe note sono più difficili di altre.
Forse per l’esattezza con cui Mariangela Gualtieri sapeva dire, sapeva dirmi, fin dai miei vent’anni, mentre io non ero capace.
Forse per il semplice mistero di quel suo nominare siderale e terrigno.
Ho provato e riprovato. E per articolare meglio ogni pensiero mi veniva da usar le sue parole, molte delle quali conosco a memoria: un po’ come nella donchisciottesca impresa del Pierre Menard di Borges ripetere esattamente, perché meglio non si potrebbe.
Niente da fare, ricominciare.
Ho provato ad analizzare le diverse raccolte per fasi e ricorrenze, temi e stilemi, testi per la pagina e testi per la scena del Teatro Valdoca, ma un po’ come per la celebre libellula di Goethe, tutta quella impalcatura logica pagavo in termini di mancata bellezza. Di freddezza.
Ho tentato, infine, sostando nel campo che mi è più proprio, a raccontare l’accadimento performativo a cui da molti anni Mariangela Gualtieri dà il nome, e il senso, di rito sonoro, l’ultimo dei quali ho incontrato domenica 27 ottobre al Teatro Lavatoio di Santarcangelo di Romagna in chiusura della decima edizione del Cantiere Poetico per Santarcangelo.
Analizzare cosa accade quando quelle parole vengono dette: questo lo so fare, ho pensato.
Raccontare il silenzio profondissimo e vigile che si crea.
La commozione che quel dire edifica: far muovere insieme, anche seduti e immobili.
L’opera dell’arte di quell’opera d’arte, insomma.
Ci ho girato attorno un bel po’, senza mai afferrare il punto.
Mi è tornata in mente una lettura di qualche anno fa, la Lettera su ciò che non scriverò, pubblicata in un numero di Culture Teatrali del 2011 dedicato ai Teatri di Voce: «Qualcosa in me si sta congelando e voi mi proponete: parliamo del fuoco, solo del colore del fuoco, solo della forma» scriveva Gualtieri nell’ambito di un largo discorso non riassumibile in questa breve nota «Ma qui si gela, si congela e io voglio il fuoco nella sua splendida misteriosa interezza ustionante di meraviglia del mondo e del cosmo».
E ho lasciato perdere.
Cosa resta, in questa recensione (per me) impossibile?
Quel che non si sa dire.
Quel che non si può dire.
Il silenzio anelante, prima e dopo ogni parola che non usciva.
Un verso dell’amatissimo Andrea Zanzotto: «fa’ che, cerca di, tendi a, dimmi tutto».
E la gratitudine.
Soprattutto la gratitudine.
Per alcuni doni ricevuti in tempi buissimi, che non stanno in queste righe ma che non dimentico.
Per le esortazioni instancabili e lievi.
Per ricordarsi e ricordarci ciò che importa, nel gran teatro del mondo.
Per non poter non dire io, in queste righe, che è cosa che in un articolo non si fa.
Perché questo io è insieme ad altri: come nei riti sonori, come in ogni rito.
Come nell’architettura plurale di senso e bellezza che da dieci anni è il Cantiere Poetico per Santarcangelo, esercizio di visone e civiltà.
Grazie.
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