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È sempre difficile, rischioso, spinoso e scivoloso riesumare dalla tomba del tempo argomenti che sono ancora divisivi e ferite aperte tra le generazioni. Ma a volte è necessario. Come nel caso di Luciano Padovani, coreografo e mente della compagnia di danza vicentina Naturalis Labor, che ha voluto mettere le mani nel fango degli anni ’70, delle Brigate Rosse e del rapimento, e successiva uccisione dopo 55 giorni di prigionia e agonia, dell’allora Presidente della Democrazia Cristiana Aldo Moro. Dal suo punto di vista ci tiene a specificare che lo spettacolo Stella, come quella a cinque punte che identificava il gruppo terroristico eversivo rivoluzionario comunista, non ha connotazioni ideologiche. Pericoloso restare in equilibrio. Ovvero non prendere le parti dell’una, quella dello Stato legalitario, o dell’altra fazione, quella criminale, scellerata, assassina, delinquenziale, corrotta. Sappiamo tutti qual era, ed è, la giusta parte con la quale schierarsi.
In Stella (prod. Naturalis Labor, AbanoDanza, Regione Veneto, Comune di Vicenza, Arco Danza) si indaga, con il linguaggio del solo corpo, la vita dei due carcerieri di Moro, il loro sodalizio, i sogni distorti, anche l’amore. Non sono personaggi da farne degli eroi, anzi sono degli esempi farneticanti (nel ’78 erano 22.000 i brigatisti in Italia) e distorti della deriva comunista che voleva sovvertire l’ordine democratico. Tra un tappeto, libri e una scrivania con macchina da scrivere, per redigere i nove comunicati inviati durante quei terribili quasi due mesi di angoscia e tormento, e una pistola, i due sviluppano figure e intrecci fisici anche violenti (bella alchimia tra i due giovani danzatori Roberta Piazza e Andrea Rizzo) mentre sullo sfondo Moro (lo stesso Padovani che ha sviluppato per due anni il progetto) sta nella sua camicia bianca su uno sgabello punitivo di schiena curvo. Nella penombra si notano soltanto i contorni sfocati, come un fantasma in dissolvenza che c’è ma che di lì a poco sarebbe stato pronto a svanire, liquefarsi nella nebbia e nell’oblio del tempo. Moro è in controcampo, un controtempo in fuorigioco, un punto bianco lontano (candido come lo sfondo dello scudo della DC) versus gli abiti dal colore rossognolo scolorito come di sangue rappreso e lavato via male, è un’ombra pallida sfigurata in silenzio. La sua presenza è decisiva e centrale, fondamentale come contrappasso e contrappeso alle evoluzioni dei due attentatori, Moro bersaglio da colpire come direbbe qualche docente contemporaneo molto mediatico ed evidentemente cattivo maestro.
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Sul caso Moro in teatro in questi anni abbiamo visto il superbo pezzo Daniele Timpano con il suo Aldo Morto, Fabrizio Gifuni in “Con il vostro irridente silenzio”, Marco Baliani con “Corpo di Stato. Mentre al cinema il dibattito è più serrato tra “Esterno notte e Buongiorno notte” entrambi di Bellocchio, Il caso Moro con Gian Maria Volonté, ma anche Piazza delle cinque lune di Renzo Martinelli, e La meglio gioventù di Marco Tullio Giordana. E’ un indagare (a tratti anche con compiacimento e un pizzico di giustificazione ad un atto che scusanti e spiegazioni plausibili non può averne né può essere perdonato) il lato umano di due boia (i mostri hanno un lato sensibile e compassionevole?) che tra dubbi esistenziali e passione, giuste paure (perché quello segnò il punto di non ritorno e la fine delle BR) ed eccessi di ottimismo. Cadono dalle sedie così come cadono i fogli sparsi, quelli dei comunicati del popolo come le lettere che Moro scrisse, danzano con la pistola come in Pulp Fiction evanescenti, drammaticamente eccitati o in una quasi Pietà michelangiolesca con lui, la parte forte e decisa e intransigente, che tiene in braccio lei, la compagna che ha avuto dei ripensamenti, che tenta di fermarlo, di zittirlo, entrambi già sciolti, annientati dalla Storia.
E’ una piece sull’assenza evocata, sulla presenza sublimata di un penitente pregante che fa molto più rumore della visione dei due malvagi secondini imbevuti di odio, di insensata e illogica vanagloria. In audio passa la Callas così come Oye como va di Santana fino ai Pink Floyd che torneranno anche nel loro principale simbolo-immagine feticcio e fulcro, quel triangolo con i raggi riflessi color arcobaleno di The dark side of the moon, in qualche modo invocato e citato in una suggestiva composizione creata da Padovani: i due danzatori davanti agli spettatori a formare una sorta di tetto e sotto, in lontananza, nel centro del vuoto creato tra le braccia e le gambe, quest’uomo, rannicchiato quasi a ricordare la sua posizione fetale all’interno della Renault 4 rossa in via Caetani a Roma, che riflette la sua potente luce, il suo poderoso messaggio salvifico di pace e tolleranza. L’immensità di Moro sta tutta in un quadro quando i due giovani stremati dormono sogni (mai) tranquilli e il segretario dell’allora primo partito italiano si alza dal suo gabbiotto, finalmente libero, forse già morto, e li accarezza perdonando eucaristicamente chi non sapeva quello che stava commettendo. Il vortice di Eros e Thanatos. Amore e morte danzano esasperatamente, intensamente, distruttivamente, in maniera furibonda. Nessun perdono verso quei compagni che sbagliarono, nessuna scusante. Non può non esserci ideologia, non si può rimanere imparziali di fronte allo scempio degli anni di piombo. Un plauso all’importante tentativo di una compagnia di danza contemporanea di parlare, di dire qualcosa di forte e sensato, ancora così vivo, pulsante e lancinante. Che la danza contemporanea non sia solo gesto e movimento ma sia piena di senso.
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