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Miserella del Teatro dell’Argine, lo dico subito, anche se non si dovrebbe, è uno spettacolo semplice e bellissimo.
Ci sono molte cose, dentro e attorno.
Gli attori/pupazzi di Tadeusz Kantor, quella dolente oggettività, quella poesia del poco e del niente. E la sfrontatezza inaudita di quel mostrarsi senza se e senza ma.
Quattro corpi-teatro che questo fanno, in uno spazio lattiginoso e pop che un po’ pare un’installazione un po’ un laboratorio di analisi, un po’ una sala di museo e un po’ un teatro anatomico. In ogni modo uno spazio in cui ben guardare, in cui ben guardarsi.
Spazio. Uso questa parola-mondo secondo la distinzione (teatrale, dico io) proposta da un gigante non abbastanza studiato, il filosofo e gesuita francese Michel de Certeau: «Un luogo è una configurazione istantanea di posizioni. Implica una indicazione di stabilità», mentre «si ha uno spazio nel momento in cui si prendono in considerazione vettori di direzione, quantità di velocità e la variabile del tempo. Lo spazio è un incrocio di entità mobili […] Lo spazio sarebbe rispetto al luogo ciò che diventa la parola quando è parlata, ovvero quando è colta nell’ambiguità di un’esecuzione».
Ambiguità, qui, si legga vastità.
Ed è chiaro quel che fa, la piena ostensione di questi corpi: mi chiama dentro. Mi fa dire: io.
E anche questa è cosa che, a norma, in una recensione non si fa.
Chiamo allora queste poche note una povera restituzione di gran dono ricevuto.
Dono d’arte e artigianato.
D’artigianato che in primis è ritmo, ritmo, ritmo – e il ritmo è tutto, ci hanno insegnato a scuola.
Frasi brevi e precise parole.
Coreografia che è scrittura di corpi nello spazio, si sa, e qui i corpi sono biologici e vocalici, verbali e musicali, luminosi e plasticosi: pop, nel duplice rimando anni Settanta e popolare.
Che è questa una delle molte anime di questo gruppo-tribù che di volta in volta si stringe attorno ai suoi per allargarsi ai molti di ogni età e di ogni dove e di ogni come: e in un panorama che si sta suicidando in club privé pagati col soldo pubblico non è poco.
Non è poco.
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Ci sono molte cose dentro e attorno a questo spettacolo, dicevo.
Una di queste è il Lamento della Ninfa che qualche secolo fa Claudio Monteverdi ha composto a partire da una canzonetta di Ottavio Rinuccini e ha inserito nel suo ottavo Libro di madrigali, a cui ha dato un titolo bellissimo: Madrigali guerrieri et amorosi.
Bellissimo. Meglio: esatto.
Anche per nominare questa nuova avventura del significare di Micaela Casalboni -qui nella sua prima vera regia, qui in scena con Caterina Bartoletti, Giulia Franzaresi e Ida Strizzi.
Qui a dar vita a un dispositivo tutto racchiuso nell’alveo del teatro, spazio in cui trova le invenzioni e le leggi, la sintassi e i codici.
Guerra e amore: apparente antinomia che ne chiama altre.
Presentazione e rappresentazione, certo, anche per i titoli di brechtiana memoria a nominare le diverse sezioni e a ricordarci, ancora e ancora, che questa macchina esilarante e accogliente è dispositivo linguistico: che l’arte è sempre e comunque questione di linguaggio.
Voci in scena e voci altre, registrate, ad allargare lo studium, per dirla con Roland Barthes. Allargare ad altre vite, ad altri angoli di sguardo e di mondo.
Continuum e sospensioni.
Naturalismo e stilizzazione.
Campiture monocrome e finestre sfumate.
Esatto minimalismo, a dar forma e forza a un tòpos –il corpo femminile che invecchia– che si presterebbe con facilità al facile piagnisteo, allo sgomitare complice, all’appiccicaticcia solidarietà.
E invece.
Ironia, tra il senso comune del sacro sghignazzo e quello socratico dell’altrettanto sacra distanza fra sé e ciò di cui si tratta: capriola non da poco, soprattutto quando ciò di cui si tratta è il sé.
E poi improvvise cupezze, subitanee malinconie.
«E se il corpo non è l’anima, l’anima cos’è?» si e ci chiede Walt Whitman, poeta d’orizzonti e minuzie.
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Il ciel mirando, il piè fermo: questo sembran fare le quattro Figure di questa semplice e bellissima Miserella.
Il ciel mirando, il piè fermo: proprio come la Ninfa del Divin Claudio.
E proprio come lei -lo scrisse in nota al Lamento lo stesso Monteverdi- muovendo senza posa «tra il tempo de l’affetto e quello de la mano»: sentire e sapere.
Proprio come il teatro vivo, tra vivi, a volte, fa.
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