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Next è entrare Jona nella pancia della balena e uscirne Pinocchio dove aver ritrovato Geppetto, Next è un soffio, Next è un sogno, Next è il prossimo venturo, Next è quel tempo da mordere che ancora non puoi toccare, Next è quello che sarà, è una trappola per gli occhi e per i desideri, è l’anno che verrà, è i vagiti di ciò che accadrà ma intanto Next è anche qui ed ora, è presente e futuribile. Una venticinquina di proposte, dislocate tra gli spazi milanesi del Franco Parenti, l’Elfo e il DanceHanspiù per una due giorni coinvolgente, stancante, piena, stimolante, piccante. Tra i tanti accenni, assaggi e incipit visti (20′ per ogni piece, un antipasto di replica), tra palpebre e pupille, tra occhiaie e miopie, abbiamo scelto sette titoli sui quali concentrarci per una nostra analisi, un nostro personale resoconto di quello che è accaduto, dei semi che poi germineranno in vere e proprie produzioni (finanziate da Fondazione Cariplo e Regione Lombardia) che dovranno debuttare necessariamente entro la stagione in corso.
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Potremmo cominciare con Green Days (prod. Campo Teatrale, autore Matteo Luoni, regia Mattia Fabris, con Ilaria Marchianò e Umberto Terruso) con un padre e una figlia chiusi dentro la loro tanto sudata scatoletta di quattro mura a scontrarsi tra l’amore, l’affetto, le beghe della gestione quotidiana della vita in una grande città e questioni di massimi sistemi, di principio diremmo. Due ottiche completamente differenti, il padre disoccupato con la cassa integrazione, abbandonato dalla moglie che tira a campare, la figlia da una parte più pratica, vuole lavorare e studiare contemporaneamente, ma infarcita di ideali green (appunto il titolo), al sapore acido di Greta Thunberg, ambientalisti estremi, punk ecologisti. Vivono in una casa occupata, gli viene staccato il riscaldamento, mangiano cibi precotti ma per la figlia la cosa di primaria importanza è fare la raccolta differenziata o rifiutare un buon posto di lavoro per alte inutili questioni morali. A vent’anni si è stupidi davvero quante balle si ha in testa a quell’età, cantava Guccini. A volte uno si crede incompleto ed è soltanto giovane, rincarava Calvino. Senza individui felici non può esistere una collettività felice ma solo arrabbiata verso un nemico invisibile e immaginario che in molti chiamano Sistema. Un difficile tentativo di equilibrio, una giusta tensione tra queste due energie contrapposte (apprezzabile l’energia degli attori), tra l’amore per la famiglia e la critica del presente, tra questo padre che vorrebbe essere benvoluto dalla figlia per i suoi slanci verso il benessere del proprio gruppo di riferimento e questa figlia più tesa e protesa verso l’etica globale e collettiva che verso l’economia e la praticità del momento. Un testo che accende e scatena il dibattito. Ci incuriosisce l’evoluzione della narrazione.
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Ci vorrebbero anche stagioni Shakespeare free e invece ogni anno nuovi allestimenti sul Bardo. Se le messinscene risultano attuali e contemporanee hanno qualcosa da dire perché tra le righe dell’autore di Stratford upon Avon c’era l’infinito. Ecco che questo Romeo e Giulietta (prod. Manifatture Teatrali Milanesi, regia Antonio Syxty) mostra fin dalle prime battute un impianto fresco con i due ragazzi, di cui il giovane d’origine afro (non è certamente una casualità, anzi è un segno forte), che dialogano mentre alle loro spalle droni e aerei bombardano, e non è un videogioco, carovane di macchine e obbiettivi militari in qualche guerra (si assomigliano tutte purtroppo) di oggi, che sia Afghanistan o Iraq, che sia Ucraina o Libano o Gaza. Ecco, se la formula e il meccanismo richiamano il mondo che abitiamo sono le parole che escono dalle bocche dei ragazzi a riportarci nel 1600 facendole stridere faticosamente con il fondale, più in sincrono con la proiezione che così invece fa attrito. Una traduzione più sul presente sarebbe stata più in linea con le immagini. Interessanti, e criptiche, le scritte tra le macchine esplose e il fumo e i razzi e i mirini: Nel tempo, Nel corpo, Nel silenzio, Nel vuoto, Nel sogno, Nel fuoco, Nel mondo, Nel cielo, Nel cuore. Parole che aprono parentesi e spazi e dimensioni da scrutare e indagare.
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Nostalgia e memoria, colori seppiati e musichette da Ventennio per il musical a due Circo Paradiso (prod. Teatro de Gli Incamminati, con Agnese Fallongo e Tiziano Caputo) che sprizza tutta la tristezza degli chapiteaux mixata e fermentata con l’allegria canaglia infantile, le atmosfere felliniane in un gioco di rimandi tra l’età anziana e quella giovanile nei ricordi di un amore e nel rievocare corpi tonici e prestanti. E’ una favola addolorata al sapore amaro di lacrime, un teatro cantato delicato in rima, tra Renato Zero e Gabriella Ferri, immerso in una dimensione da Donna Cannone degregoriana: divertente, giocoso, gioioso con una patina opaca di pianto represso. Due anziani si allenano per il loro ritorno in pista, pieni di malanni e acciacchi, con la schiena curva dai tanti pesanti esercizi ricordando i tempi quando sfidavano la morte al trapezio sorvolando le teste del pubblico dentro il tendone. Forse è il loro ultimo salto, forse lo vogliono fare in grande stile, forse è il loro commiato e saluto al mondo. Adorabili, garbati e graziosi i due interpreti. Ci sciogliamo in una calda carezza tra la magia del circo della vita e il mistero dell’Aldilà.
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Arriviamo con molte aspettative a Metaforicamente Schiros (prod. A.T.I.R. di Beatrice Schiros e Gabriele Scotti) con l’attrice simbolo e feticcio fino a due anni fa della compagnia pop Carrozzeria Orfeo che proprio allora ruppe con l’autore Gabriele Di Luca e si staccò dal gruppo e si allontanò dal teatro. Motivo dello scontro e del contendere fu lo spettacolo autobiografico Stupida show scritto proprio per Beatrice Schiros che dopo poche repliche, con molte polemiche, lasciò la tournée finendo poi per essere sostituita da Paola Minaccioni. L’attesa per questo ritorno, per questo nuovo inizio, per questo nuovo debutto era molta. Ma è un altro spettacolo autobiografico, anzi di spettacolo ha poco, è proprio una confessione e più che va avanti e meno risulta teatrale ma sempre più psicoanalitica. Sembrano proprio le sbobinature registrate dallo psicologo. La leggerezza, o la brillantezza alternata ai fallimenti in quel one woman show, lascia presto campo ad una tristezza infinita, ad un’amarezza difficile da contenere e contrastare. Più che applaudire verrebbe voglia di andare sul palco e abbracciarla, stringerla. Ci sentiamo impotenti di fronte a questa ondata di dolore incontenibile. Non si ride più. Il linguaggio crudo che all’inizio ci ricordava i suoi personaggi schietti al limite del volgare (sempre paragonata alle sorelle sboccate, ruvide, ruspanti e fumatrici di Marge Simpson) lascia il posto alla morte di genitori, zia e cane amatissimo e ad una solitudine come voragine che sembra inglobare tutto, che pare di sentirne la pesantezza e l’eco incommensurabile di catastrofe. Una sofferenza che passa palpabile: Andrà tutto bene non è vero, Sono in difficoltà, Penso alla morte, alla malattia. Più che altro spiazzante. Siamo naufraghi desolati. Salvate il soldato Schiros.
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Ed eccoci al primo dei tre migliori venti minuti visti nella due giorni meneghina: i vincitori morali. Possiamo dire che gli Animanera, dopo tanto teatro verità, fanno teatro nell’accezione più alta del termine: ci sono degli attori, un testo, una scena usata e sfruttata e poi ironia e sarcasmo bilanciate con la profondità di un ragionamento, il tutto con quella fiction che rende la pratica del teatro ancora più pervicace e introiettante, invasiva e corrosiva. Il torsolo degli Animanera, lo dice il nome ma la loro coerenza negli anni è encomiabile, è quel gusto dark, di nebulosa e nebbia ambigua, una cupezza tra Depeche Mode e Cure, quell’abisso ogni volta sfiorato ed evocato, quel trash che crea empatia, quell’horror che sfocia nel grottesco e che perdoni sempre. Con Schiavo d’amore (prod. Animanera E.T.S., testo di Magdalena Barile, con Natascia Curci e Milutin Dapcevic), ispirato all’opera di Sacher Masoch, ci portano dentro le influenze, il bordeline, tutto il kitsch, quel gusto per l’orrido, quella violenza psicologica che ci attrae e ci respinge, dalla quale siamo affascinati e allo stesso tempo impauriti perché è lì che perdiamo i nostri punti di riferimenti borghesi. Gli Animanera mettono in scena le pulsioni più nascoste di ognuno di noi pallidi individui che rispettano le regole e la logica, sono il latex, sono la cerniera, sono l’indicibile, sono la penombra, mai il buio. Una badante e il figlio della signora invalida (Dapcevic è un raggiante, conturbante e radioso mix tra Tommaso Ragno, Owen Wilson e il biondo dei poliziotti californiani in motocicletta, i Chips) si scambiano i ruoli tra carnefice e vittima, tra paure che diventano piacere, pudicizie che si traslano in godimenti. Padrone e schiavo, i maltrattamenti, il caos, le umiliazioni chieste, pregate, volute, le quattro zampe, il sadomasochismo, le sculacciate, i tacchi a spillo, la sofferenza, il transfert psicoanalitico, il tutto contribuisce ad un sapore dannunziano, ad un’eccitazione sotterranea che tracima fino alla platea. Interessante e divertente. Altro che le 50 sfumature. Cosa chiedere di più? Curiosi di vederlo nella sua versione compiuta.
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Altra punta dell’iceberg è stato Il teatro comico di Carlo Goldoni (prod. Centro Teatrale Bresciano, Teatro dell’Elfo, testo di Valentina Diana, con Invisibile Kollettivo) un teatro nel teatro, con tanto di regista-drammaturgo in scena, una prova aperta tra Arlecchino, Rosaura, Florindo e Brighella che piega verso uno spassosissimo Rumori fuori scena tra problemi personali, esistenziali, relazionali, sentimentali, contrattuali e quel siparietto luccicante della pubblicità di un caffè di second’ordine miscelata con le pagine del commediografo veneziano del ‘700. Ritmo, musicalità, freschezza le parole d’ordine di questo scoppiettante pezzo di bravura e intelligenza attoriale.
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Infine quello che per noi è stato il miglior pezzo, più intenso, allarmante, pericoloso e caustico: Schegge di memoria disordinata a inchiostro policromo (prod. Teatro Franco Parenti, testo di Gianni Forte, regia Fausto Cabra, con Pietro Micci, Anna Gualdo, Elena Gigliotti): un premio già per il titolo. Un testo destabilizzante a creare cortocircuiti, sensoriali e intellettivi, una scrittura pungente e contratta, irta e irsuta da accapponare la pelle, senza spazi di dolcezza, senza purgatori da condividere, parole come lame, frasi come incesti, scene come katane a sezionarci. Come immergerci in un Trainspotting psichedelico, allucinazioni e violenze, un viaggio negli anfratti del nero dell’uomo come un rave lisergico, la malattia psichiatrica, lo stupro, il panico, l’instabilità emotiva. Teatro allo stato puro, essenza di materia, di incubi, di carne. Parole solide esperite attraverso un palco. Questo cerchiamo con il lumicino della ragione. Il fottuto teatro.
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