Buio Luce Buio. Brevi note sul recente teatro di Alessandro Renda | Albe

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Alessandro Renda

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In principio furono I Polacchi.

Era il 1998 e nella creazione ispirata all’Ubu re di Alfred Jarry, tra i “palotini” c’era anche Alessandro Renda.

Con quello spettacolo, che fu un “caso” nel panorama teatrale nazionale e non solo, è iniziata per lui un’ininterrotta e proteiforme attività con il Teatro delle Albe.

Delle mille cose realizzate con l’ensemble ravennate ne nomino solo due, ora: il monologo Rumore di acque, con cui dal 2010 ha girato il mondo, e la densa produzione video di documentazione e trasduzione filmica di molti progetti del gruppo fondato oltre quarant’anni fa da Marco Martinelli, Ermanna Montanari, Luigi Dadina e Marcella Nonni.

Scopo di queste righe, ovviamente, non è esaurire (per dirla con l’amato Georges Perec) una carriera che è stata e certo continuerà ad essere lunga e piena: ora desidero, solo e semplicemente, restituire alcune parole sulle due più recenti creazioni di Renda, HereThereWere e Nephesh – Proteggere l’ombra, che sono state presentate nelle scorse settimane a Ravenna come prologo della Stagione dei Teatri 2024-2025.

Buio Luce Buio: ho posto a titolo di queste righe un’opera di vent’anni fa di una sapiente concittadina di Renda, la coreografa, danzatrice, insegnante di yoga e scrittrice Francesca Proia.

In un suo illuminante libro del 2011, Declinazioni yoga dell’immagine corporea, Proia parla di questo assolo come di un lavoro «di pura presenza nello spazio».

Mi pare, in estrema sintesi, che questa sia uno dei possibili approdi della ricerca artistica di Renda.

Detta così, mi rendo conto, può sembrar cosa vaga.

Mi appoggio allora, per entrar nel merito, a un grande filosofo scomparso pochi anni fa, Jean-Luc Nancy: «Ciò che gli artisti sanno bene, è che non può darsi presenza senza rappresentazione. Presenza e rappresentazione: la seconda non è copia della prima. Essa è la presentazione a un soggetto, questo il primo significato del termine rappresentazione. Il reale, per poter essere, deve essere presentato».

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Presentarsi per poter essere: mi pare esattamente ciò che fanno le tre Figure in beckettiana attesa di HereThereWere.

Lo stesso Renda insieme a Mark Anderson e Isabelle Kralj della compagnia americana Theatre Gigante, che co-produce lo spettacolo: semplicemente, ferocemente, stanno.

Sospesi.

Spersi.

E se è vero (ed è vero) che ogni elemento si evidenzia più facilmente nella giustapposizione col proprio opposto, è dai piatti segni tracciati a terra a delimitare, o meglio edificare, un luogo (come non pensare a Dogville di Lars von Trier) che emerge la spessa carnalità di chi è in scena.

Nei loro stupiti silenzi si incuneano le tremolanti meditazioni filosofiche.

Dall’insistito multilinguismo sorge la salvifica possibilità di farsi stranieri alla propria lingua, pre-condizione essenziale per ogni stupore e, dunque, per ogni piena presenza.

È teatro filosofico, questo, non tanto perché ha la filosofia come oggetto, quanto perché la pratica, la incarna: la «mette in vita», per usare un’espressione cara al gruppo ravennate.

Luce e buio, attesa, sporgersi verso l’ignoto: sono molti i nuclei tematici attorno a cui i tre stanno, come umani infreddoliti attorno a un benedetto falò. Come di notte, in mezzo al «vasto teatro dell’esistenza».

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ph Serena Spadavecchia

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Un’analoga attitudine, ma in altro spazio, sembra emergere da Nephesh – Proteggere l’ombra, che ho esperito al Cimitero monumentale di Ravenna.

In questo caso Renda è la guida, eloquentissima ancorché muta, di un manipolo di camminanti, muniti di cuffie.

Seguendolo tra vialetti e lapidi, cappelle e bidoni, marciapiedi e fiori, fotografie sbiadite e nomi improbabili, vien da pensare in primis a Yves Klein, quando nel ’58 nella galleria Iris Clert di Parigi, in una sala neutralizzata da un bianco abbacinante creò Il vuoto: semplicemente stando.

Per dirla più esattamente: ottimizzare le facoltà noetiche, ossia connesse all’immaginazione, incarnandole in perlustrazioni motorie, vivendo esperienze in un ambiente che, del vivere, celebra la fine.

È esperienza etimologicamente estetica, quella che Renda ha reso, insieme a Tahar Lamri, parole in cammino: andare per conoscere.

Conoscere attraverso i sensi.

E riconoscere.

E riconoscersi: prova ne è la grande quantità di messaggi commossi ricevuti dall’artista al termine di ogni replica.

Commozione, vale sempre ricordarlo, etimologicamente rimanda al muoversi insieme.

Replica: d’acchito pare improprio, questo gergo teatrale, per un accadimento che il teatro travalica.

Ma travalicare, si sa, è l’atto di scavalcare fisicamente qualcosa, per muovere altrove.

E teatro, nell’origine greca della parola, è luogo dello sguardo e della visione.

Tra esortazioni ed esperienze (auto)biografiche, si è guidati da un testo che è stato composto in itinere e adattato in situ: «spazi drammaturgicamente attivi», direbbero i teatrologi, hanno guidato una scrittura misterica e meditabonda, consegnata ora come dono sapienziale ora come confidenza sussurrante.

Etimologie di diverse parole, a ricordare che in noi -e nel nostro linguaggio consumato- c’è qualcosa che ci travalica.

Il respiro, come prima e forse unica possibilità di condivisione.

Pieno vuoto pieno.

Buio luce buio, ancora.

Un titolo che in ebraico rimanda al soffio, all’anima e alla vivezza, alla gola e alla voce: facce diverse di un medesimo consistere.

Cimitero come corpo: diversi spazi come altrettanti parti del corpo.

Voci che in cuffie giungono da diverse direzioni, spazializzate.

Uso spazio (e i suoi derivati), qui, nell’accezione proposta da Michel de Certeau, gesuita e filosofo mai abbastanza studiato: «Lo spazio sarebbe rispetto al luogo ciò che diventa la parola quando è parlata, ovvero quando è colta nell’ambiguità di un’esecuzione».

Questo fa il fiume di testo in cui siamo immersi, in questo spazio-sonda: ci getta in un limine.

Che è ciò che l’arte dovrebbe sempre provare a fare.

Forse.

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