Sinfonia di una grande città. Note sul Milano Off Fringe Festival

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ph Pedro Parraga

UNO

«La sinfonia» spiega Otto Károlyi nel suo fondativo Grammatica della musica del ‘65 «è un po’ il romanzo della letteratura musicale; nel suo ambito strumentale c’è posto per qualsiasi cosa, dal lirismo più tenero all’eroismo più esasperato».

DUE

Trentotto anni prima, era il 1927, esce Berlin – Die Sinfonie der Großstadt, celebrato docu-film di Walter Ruttmann: una «sinfonia visiva», l’ha definita lo storico del cinema Paolo Bertetto, in cui il regista tedesco «nel suo lavoro compositivo usa le immagini e gli oggetti metropolitani in un’ottica di ritmi visivi molteplici».

Non va certo dimenticato che Ruttmann, qualche anno prima, è stato il primo a realizzare film astratti (Opus 1, poi 2, 3 e 4, rispettivamente nel 1919, 1921, 1924 e 1925). Forme significanti in quanto tali, dunque, prima e al di là di possibili significati.

TRE

Tra il 1909 e il 1910 lo scenografo svizzero Adolphe Appia disegna una serie di scene a cui dà il nome di spazi ritmici, luoghi ideali di spettacolo, tridimensionali e praticabili, in cui l’elemento preminente è una struttura architettonica volumetrica che condiziona e si fonde con il movimento del corpo. Fondamentale, nel suo percorso, l’incontro con Émile Jacques-Dalcroze, sviluppatore dell’euritmica, un metodo per insegnare e percepire la musica attraverso il movimento.

E QUATTRO

Ho deciso di porre questi tre riferimenti -musicali, cinematografici e scenografici- in apertura delle mie note sulle due giornate passate alla sesta edizione del Milano Off Fringe Festival, il 4 e 5 ottobre scorsi, per manifestare la prospettiva che intendo adottare in questa mia piccola restituzione.

Prima e più che commentare i sei spettacoli visti (e dunque comporre una sorta di “elenco della spesa”, come si suol dire, che non serve a nessuno se non agli artisti nominati per mettere insieme un post cosparso di cuoricini), vorrei evidenziare -e in qualche modo assecondare- la natura della direzione artistica di Francesca Vitale e Renato Lombardo, che riassumerei con quattro aggettivi:

multilinguistica

compositiva

ambientale

relazionale

LA CITTÀ COME TESTO

Una capillare quanto sorprendente dislocazione in spazi non teatrali pienamente significanti risemantizza una quantità di creazioni -affatto difformi per concezione, realizzazione ed efficacia- riconsegnando al pubblico milanese il teatro nella propria accezione etimologica che fa del luogo la precondizione affinché si possano generare sguardi e visioni.

Questa proposta culturale mette in vita una sorta di postmodernismo urbano, facendo prevalere la vitalità multiforme e a suo modo irriducibile sulla banale unità e utilità del modernismo.

Detto altrimenti: qui si consegna a chi lo desidera la possibilità di attraversare con passo e attitudine da flâneur la città che, al contrario, rappresenta l’archetipo, finanche il cliché, dell’iper produttivismo senza se e senza ma.

I luoghi della metropoli divengono drammaturgicamente attivi: elementi generativi di sguardi e visioni – dunque, etimologicamente, di teatro.

SULLE NUVOLE

Vitale e Lombardo curano «con i piedi ben poggiati sulle nuvole», si potrebbe dire con Ennio Flaiano, un articolato e virtuoso meccanismo di selezione e distribuzione di opere e compagnie spesso escluse dai circuiti “di serie A”, collegato in Italia a un Festival gemello (in corso proprio in questi giorni a Catania) e in giro per il mondo a una ridda di analoghe intraprese culturali.

Le e gli artisti selezionati al Festival trovano un piccolo guadagno, visibilità, incontri auspicabilmente propizi con operatori, critici e spettatori, nonché alcuni momenti di formazione.

Sono assegnati anche diversi riconoscimenti, in parte decisi da gruppi di studenti che sono, nei mesi precedenti al Festival, coinvolti in percorsi sulla spettatorialità attiva, libera e consapevole.

La scelta di quali spettacoli ospitare spetta in primis agli spazi ospitanti.

Nella mia piccola, parziale conoscenza di questa multiforme realtà, l’incontro tra luoghi e opere ha influenzato in maniera determinante la ricezione di queste, come proverò a sintetizzare fra poche righe.

Prima, però, desidero condividere due domande: una per le artiste e gli artisti che si troveranno a leggere queste righe, l’altra per tutte e tutti.

 

ph Pedro Parraga

 

COME ALFRED HITCHCOCK?

Avere come riferimento prioritario il pubblico, in un dispositivo curatoriale che si sostanzia attraverso il lavoro di numerosi ensemble artistici mobili, per necessità e virtù, non può non far pensare a quel sistema produttivo noto in tutto il mondo occidentale come Commedia dell’Arte (lo ribadisco, perché è una distinzione fondante: la Commedia dell’Arte non fu uno stile di rappresentazione, ma un sistema produttivo da cui derivò un modo di intendere e praticare l’arte della scena).

Ciò è ancor più vero abitando, le creazioni di questo Festival, spazi non teatrali e dunque intercettando, spesso, pubblici diversi da quelli abituati alle stramberie del contemporaneo o alle lungaggini della prosa – soggetti per cui l’aspetto sociale e auto-gratificante del consumo culturale prevale.

Tra le polarità «piacere al pubblico dando ciò che esso si aspetta» e «lavorare sull’esattezza e la innovazione del linguaggio» (che è sempre ciò che distingue l’arte da ciò che arte non è) dove si colloca, la proposta di ciascunə?

Detto altrimenti: Alfred Hitchcock, che piaceva al pubblico e faceva impazzire critici e storici, è in qualche modo un modello?

Se sì, come?

SPECCHIO DELLE MIE BRAME

Lo spettacolo tra quelli visti che più mi ha entusiasmato è stato Boxeur di Pequod Compagnia, interpretato da Stefano Pietro Detassis e allestito per l’occasione negli spazi di Heracles Gymnasium, una palestra di boxe nella prima periferia milanese.

Al di là di alcune associazioni personali e del godimento tautologico, quella esperienza mi ha fatto pensare a una sera, qualche anno fa, in cui andai al Teatro Bonci di Cesena a vedere uno spettacolo dell’Opera di Pechino.

In platea e nei palchetti, nugoli di cinesi.

Che, in molti anni di intensissima frequentazione di spazi teatrali di ogni tipo e ovunque, non ho mai visto.

Ora: io non son certo misura di tutte le cose, ça va sans dire, ma è indubbio che la tendenza ad accogliere e ritrovare ciò che già conosciamo (un cinese che sceglie segni e riferimenti dell’Opera di Pechino, una palestra di boxe che sceglie uno spettacolo sulla boxe) è grande.

Lo diceva già Cesare Pavese ne Il mestiere di vivere, nel ’52: «Leggendo non cerchiamo idee nuove, ma pensieri già da noi pensati, che acquistano sulla pagina un suggello di conferma».

Quanto il nostro incontro con l’arte vuol essere, come spesso si predica, spiazzante e quanto lo vogliamo invece decorativo, rassicurante, auto-riflettente?

OPERA SULL’OPERA SULL’OPERA

Provando ad assecondare, come scrivevo qualche riga fa, la natura multilinguistica, compositiva, ambientale e relazionale della direzione artistica di Francesca Vitale e Renato Lombardo, piuttosto che commentare o, peggio, giudicare quanto incontrato nelle due giornate milanesi, cercherò ora di condividere alcune domande, sideralmente distante dalla dinamica critica consueta del «mi è piaciuto (o non mi è piaciuto) e spiego perché», a partire da minuscole suggestioni ricevute dall’intreccio significante tra gli spettacoli e i contesti che li hanno accolti, nell’ambito della macro-opera costituita dal Festival.

In estrema sintesi, nulla di esaustivo.

Solamente, per dirla con l’Italo Calvino de Le città invisibili – che di scaturigini generative dei luoghi certo se ne intendeva – «segnali che uno lancia e non sa chi li raccoglie». 

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COMPAGNIA ARTE & DINTORNI, TUTTI CREDETTERO CHE L’INCONTRO TRA I DUE GIOCATORI FOSSE CASAUALE – UNA STORIA SU ALDO MORO

Lo spettacolo, presentato all’Istituto Tecnico Industriale Carlo Bazzi di Milano, ha avuto in platea diversi studenti.

Quale idea e prassi di arte della scena si vuole consegnare alle nuove generazioni?

Il primato del cosa (in questo caso: una vicenda civile di assoluta rilevanza) o quello del come (il linguaggio scenico che incarna ciò di cui si tratta)?

E quanto è necessario che il come si avvicini ai codici in uso tra i possibili riceventi, perché risuoni in loro?

Quale rigore formale, infine, è necessario affinché si sia efficaci anche nell’alterità rispetto all’esperienza quotidiana di chi incontra le opere?

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COMPAGNIA TEATRING, IMPOSTORA

Uno specchio posto sul soffitto dello spazio scenico simbolicamente evidenzia, nel concitato monologo interiore della protagonista, un côté psicanalitico.

Quale rapporto tra stilizzazione e naturalismo è opportuno instaurare affinché la comunicazione sia al contempo leggibile e altra rispetto alla quotidianità?

Quanto l’assecondare ciò che il possibile fruitore si aspetta (esempio, in questo caso, un tono comico, con ritmi e tensioni quasi da stand-up comedy) vincola dal punto di vista produttivo e distributivo la creazione?

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COMPAGNIA ITACA, BENT

Una casa-teatro accoglie uno spettacolo in cui l’intimità dei soggetti è custodita e al contempo iper-esposta.

Quale allenamento è necessario per accordarsi al luogo e al contesto che ospita i lavori, sia dal punto di vista materiale (volumi della voce, tono e ampiezza dei movimenti, ecc) che ideale e poetico?

Nella scena forse più memorabile dello spettacolo, un rapporto sessuale -impossibile da vivere carnalmente a causa delle regole del campo di concentramento in cui si trovano i protagonisti- è significato tramite alcuni parametri del linguaggio verbale (tono, ritmo e intensità crescenti) delle due figure poste in piedi una di fianco all’altra. Quanto siamo abituati ad accogliere i significanti come essenza del fatto artistico, prima e al di là dei significati?

 

ph Pedro Parraga

 

044 MIME COMPANY, NEWS

Un centro culturale italo-albanese che propone in primis corsi di improvvisazione teatrale ha scelto il lavoro di pantomima di un gruppo ucraino che traduce in ritmo e ironia il macro-tema del rapporto con l’informazione (nomen omen).

Lo spettacolo si costituisce di una ridda di esilaranti invenzioni, intrecci fisici e di direzioni, suoni e musiche, senso e nonsense, con un «messaggio» finale: i fogli di giornale divengono funi e fasce che imbrigliano, impediscono il libero movimento.

Quanto il sapere che ciò è espresso da una compagnia ucraina rende plausibile o rinforza un tale contenuto?

Quanto la premessa culturale condiziona la ricezione di ciò che è offerto allo sguardo?

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COMPAGNIA FANG-TA, TRILOGIA DELLA COLPA

La trilogia propone in primis tre prospettive peculiari e inusuali per attraversare il tòpos prescelto: l’interno del corpo materno, per un feto che deve nascere, l’incontro post mortem tra moglie e marito, una rappresentazione manageriale della divinità.

Quanto l’arte ha a che fare con il riconoscimento e la forzatura del nostro sguardo consueto e di ciò che consideriamo valore o disvalore?

E come lo sguardo stesso può divenire oggetto dell’opera?

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PEQUOD COMPAGNIA, BOXEUR

L’introduzione autobiografica del protagonista scivola nello spettacolo senza soluzione di continuità, problematizzando in maniera efficace le categorie attraverso le quali leggiamo i diversi elementi della performance dal vivo.

I temi civili e sociali sono rinforzati da una stretta scrittura coreografica, che segna ogni passaggio rendendo il corpo-teatro del protagonista vivo e leggibile in ogni momento.

Una esatta ironia colora e dà aria a questa stupefacente creazione.

La (provocatoria) domanda con cui chiudo questo fin troppo lungo articolo: perché questo spettacolo e questo attore non hanno ancora vinto un premio teatrale nazionale importante?

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