Il Canto Selvaggio di Aleksandr Nikolaevič Bašlačëv

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Erano i primi giorni di permanenza a Peter, così i locali chiamano San Pietroburgo, e Ludmilla, la signora che mi ospitava, mi aveva accompagnato lungo la Nevskij Prospekt per indicarmi alcuni punti cruciali della città: la scuola che avrei dovuto frequentare, i ristoranti meno cari, e la Brodiaciaja Sobaka, il locale tanto declamato dagli artisti in cui Majakovskij recitava le sue prime poesie.

Durante la nostra passeggiata mi fermai per ascoltare un busker che intonava una canzone, intervallando il suo canto con un placido fischiettio. Non capivo assolutamente nulla delle parole, ma venni colpito dalla melodia, dal fischiettio, e da un senso di estraniamento che la canzone mi trasmetteva. Chiesi a Ludmilla la quale mi disse che quella canzone era di Aleksandr Nikolaevič Bašlačëv.

Successivamente le porsi il mio cellulare e le chiesi di cercarmi qualche sua canzone su YouTube. La sera ascoltai gran parte dei suoi pezzi, scaricai i testi, traducendoli alla bene e meglio con Google e lessi quello che trovai in rete sulla sua vita.

 

https://www.youtube.com/watch?v=dJT_ZmILjZs

La sua voce emerse durante negli anni ’80, in un’Unione Sovietica che si stava sgretolando, attraversata da tensioni, speranze e disillusioni. In questo contesto, la musica di Bašlačëv era uno specchio frantumato che rifletteva le angosce e le aspirazioni di un’intera generazione. Non c’erano orpelli nella sua musica, nessuna complessità orchestrale: solo la cruda essenza di un uomo con una chitarra, un canto che si faceva strada nel vento, simile al lamento di un lupo nelle notti più fredde.

https://www.youtube.com/watch?v=6aGCC2mxChU

 

 

Una delle caratteristiche più straordinarie di Bašlačëv era la sua capacità di fondere poesia e melodia in modo quasi mistico. I suoi testi sono profondi, intrisi di un simbolismo oscuro e spesso enigmatico, ma al tempo stesso così vicini alla verità dell’esperienza umana. Parlava della sofferenza, della solitudine, dell’amore e della morte con una sincerità disarmante. Nei suoi brani, la Russia non è solo un luogo, ma un’idea astratta e sofferta, un’ombra che si muove tra sogni infranti e ideali non realizzati. “Griša” e “Vse Zhdut Vosstanija Mertvykh” sono esempi di come la sua musica sfiori temi universali, pur rimanendo intimamente legata al contesto sovietico in cui viveva.

 

 

Il suo canto non era una voce pulita e levigata, ma grezza e selvaggia, come se ogni parola fosse un morso, una ferita che sanguina sul palco. Questa potenza vocale rispecchiava le sue parole, rendendo ogni esibizione un rituale quasi sacro, un atto di esorcismo collettivo in cui il pubblico veniva immerso in una verità brutale ma necessaria.

La chitarra di Bašlačëv era la sua unica compagna musicale, eppure la sua presenza era sufficiente a riempire il vuoto. La semplicità della sua musica era ingannevole: in quella spogliazza c’era tutta la potenza di un universo sonoro che prendeva vita tra i suoi accordi. Non c’erano virtuosismi né sofisticazioni tecniche: ogni nota era funzionale al messaggio, al cuore pulsante della canzone. Era una musica che bruciava, fatta di fuoco e terra, di ruggine e sogni. In questa purezza, Bašlačëv trovava la sua forza: la mancanza di artifizi rendeva il suo messaggio ancora più diretto e impattante.

 

 

La sua chitarra non seguiva sempre la logica della convenzione musicale, sembrava invece seguire l’istinto del poeta, oscillando tra il folk russo tradizionale e un rock grezzo, privo delle distorsioni e delle luci scintillanti del mainstream. Il suono era scarno, come uno scheletro che risuona nel vento. Eppure, quella semplicità era la sua bellezza: una melodia ossessiva, che si incatenava ai versi, scolpendo nell’anima di chi ascoltava un senso di irrequietezza e fame.

 

 

C’è una sorta di urgenza nella musica di Bašlačëv, come se sapesse che il suo tempo sulla terra fosse limitato. La sua tragica morte, avvenuta nel 1988 a soli 27 anni, ha congelato la sua voce in un tempo sospeso. Eppure, quella voce non ha mai smesso di echeggiare. Bašlačëv ha incarnato l’anima tormentata di un popolo, e le sue canzoni sono rimaste come testimonianza di un tempo difficile, ma anche come speranza per un futuro migliore, mai davvero arrivato.

La musica di Bašlačëv non è per chi cerca il conforto. È per chi è disposto a entrare nel cuore della tempesta, ad affrontare le verità scomode e a sentirsi, per un momento, parte di un’umanità ferita ma capace di resistere. Aleksandr Bašlačëv ci ha lasciato troppo presto, ma le sue canzoni sono vive: crepitano come brace sotto la cenere, pronte a riaccendersi ogni volta che qualcuno decide di ascoltarle davvero.

 

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