Non mi ricordo se già in qualche post precedente ho scritto che penso che William Gibson sia uno dei padri putativi della contemporaneità, intesa proprio come “vita contemporanea”, e anche se non lo fosse e qualcuno avesse da eccepire, bene è uno dei miei scrittori preferiti. In Neuromante, libro che ha superato quest’anno i trent’anni di vita (è del 1984), si teorizzavano quasi tutte le novità con cui abbiamo a che fare quotidianamente. E oltretutto è uno scrittore, Gibson, che ha ispirato una valanga di film, più o meno direttamente. E questi film, quasi tutti, hanno un clamoroso difetto di fabbrica, una specie di smagliatura visiva che li rende prevedibili e immediatamente riconoscibili (e non deve essere considerato un bene): fanno del cyberpunk un luogo tutto simile a se stesso, sporco, pieno di gente invelenita, fangoso, polveroso, con persone piene di aggeggi meccanici impiantati addosso e con i cattivi che vivono circondati da una demenziale corte dei miracoli in cui c’è sempre uno con i capelli rasta, uno con i capelli a cespuglio tenuti fermi da un paio di occhiali da saldatore e uno a cui hanno amputato qualcosa. Ah, e tutti hanno i denti marci. A rileggere i libri di Gibson, papà del cyberpunk e di buona parte delle invenzioni tecnologiche con cui ci confrontiamo, tutto questo lerciume non si nota. Anzi, paradossalmente, la gente con cui i protagonisti dei suoi libri si confrontano sono persone mediamente ricche, circondate da mezzi all’avanguardia e che ragionano su procedimenti di marketing e coinvolgimento emotivo di grandissimo livello. E si, questo succede sia nel ciclo di Bigend sia in quello dello Sprawl (luogo noto a chi ascolta i Sonic Youth).
Tutto ‘sto pippone per arrivare a The Blackhat, l’ultima fatica di Michael Mann (forse definitiva, visti i risultati al botteghino e all’incomprensibile brutalità con cui è stato accolto dai siti più autorevoli di cinema…e questo la dice lunga sulla qualità di certe prese di posizione). Perché a pensarci bene questo film è la più precisa, e vicina, definizione di film cyberpunk che si possa immaginare allo stato attuale delle cose. E quindi della nostra contemporaneità. E non è tanto la trama, sebbene sia maledettamente intrigante, spionistica e cibernetica, ma sono proprio la qualità dell’immagine e del ritmo che fanno la differenza. Tutto quello che gli è stato osservato come contrarietà (eh si, trama figa ma lenta e melmosa nello sviluppo) non è altro che il carattere principale del genere a cui fa riferimento: nel cyberpunk le cose non si svolgono come nei tre Matrix, dove a tratti si sviluppavano coreografie di botte da far impallidire contemporaneamente Stallone, Schwarzenegger, Bud Spencer, Terence Hill e Tsui Hark. Nel cyberpunk si procede per stupore immaginifico, per raccordi digitali, per 1 e 0 che si rincorrono nella rete cercando le giuste alchimie fisiche da raggiungere. Il cowboy Case di Neuromante è il fenomenale Nick Hathaway interpretato da Chris Hemsworth, Kassar ricorda il colossale, e ambiguo, Bigend, la bellissima Chen Lien è una fra le tantissime, indimenticabili, protagoniste dei libri di Gibson. Ma non è solo questo. La pasta dell’immagine, la fotografia, le inquadrature “nel cuore della motherboard”, con i dati che illuminano un percorso articolato quante sono le matrici da percorrere, le tastiere riprese dall’interno. Michael Mann costringe lo spettatore a confrontarsi con il proprio io meccanico, con la propria identità digitale, con il proprio essere cybernativo. Una visione tanto sconcertante quanto infinitamente accogliente. The Blackhat è un abbraccio velenoso, un colpo di fucile al sistema, la rappresentazione definitiva dell’universo cyberpunk. Che è il nostro presente.
Difficilmente altri seguiranno questa strada, il sentiero è segnato ma resterà imbattuto. E questo, per gli spettatori, è una sconfitta.