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Anche il saggio della scuola dell’Accademia dei Filodrammatici si trasforma in uno spettacolo compiuto, pieno di dignità, senso, competenze, professionalità, una pièce che potrebbe benissimo stare in molte stagioni teatrali nostrane senza sfigurare minimamente.
La scuola, ogni biennio, sforna dodici nuovi attori.
Da questa accademia, fondata ad inizio ‘800, ultimamente sono usciti giovani gruppi come gli Oyes, i Caterpillar o gli Eco di Fondo.
E Bruno Fornasari, attento regista e aperto direttore artistico del teatro milanese proprio dietro la Scala insieme all’altrettanto brillante Tommaso Amadio, con le sue scelte drammaturgiche o registiche pone sempre l’accento sulla responsabilità civile, sociale e politica dell’individuo all’interno del microcosmo del suo gruppo di riferimento nel quale vive e del macrocosmo globalizzato del mondo nel quale galleggia, sopravvive e boccheggia cercando di salvarsi.
Il teatro come analisi sociologica del reale, come comprensione dei movimenti intangibili, come approfondimento, miscelato ad un alto intrattenimento culturale, per capire o almeno tentare di interpretare momenti storici, fenomeni, situazioni, dinamiche contingenti che necessariamente entrano in collisione con il nostro vissuto e che spesso sfugge alle regole della comprensione, esula dalle spiegazioni plausibili, credibili, possibili.
Fornasari, che il testo sia frutto di suo pugno o scelto (soprattutto dalla continua fucina inglese) non cerca facili soluzioni, paradigmi o assiomi, il suo non è manierismo di chi cerca per il gusto di farlo ma neanche assolutismo né semplificazione.
E’ la dialettica che muove tutto, è il confronto delle tesi che può portare ad una sintesi senza cadere nel pensiero unico nemico di ogni intelligenza e che inaridisce qualsiasi società civile.
I suoi lavori sono quelli di un pensatore puro, di un libero battitore, sono opere intellettuali e di ricerca nel senso più alto, riflessivi perché generano riflessioni, alti perché mirano oltre lo stretto e gretto contingente attuale, tentano di argomentare per il sapore della digressione, per sentire sul palato le parole scorrere, i dialoghi fluire, i pensieri farsi carne.
Si capiscono relazioni e scontri, ci si riconosce nello specchio delle azioni, si calcola, si bilancia, si armonizzano posizioni distanti, spesso opposte, ci si mette nei panni dell’altro presentando un ventaglio di possibilità, per azionare un ragionamento a 360 gradi che non si impantani.
Fornasari ti mette davanti ad un caleidoscopio da cogliere, un mazzo di carte dalle quali scegliere consapevolmente, con tutti gli strumenti sul piatto, senza strumentalizzazioni faziose, la propria linea, la propria idea sull’argomento.
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E anche questo Il dilemma del prigioniero di David Edgar (qui andato in scena come saggio di chiusura del biennio attoriale; luci di Fabrizio Visconti, scene e costumi di Erika Carretta e video di Umberto Terruso) è un testo importante, con alle spalle un altrettanto sforzo produttivo corposo per un lavoro compiuto e da valorizzare.
Il gruppo di lavoro alto e performante (Sebastiano Amidani, Gloria Busti, Teresa Noemi Bove, Maria Canino, Matteo Chirillo, Michele Correra, Alessandra Curia, Alberto De Gasperi, Caterina Pagliuzzi, Gionata Soncini, Gabriele Spataro, Chiara Terigi) ha dato prova di essere già pronto e all’altezza per altri contesti dopo aver affrontato una drammaturgia complessa e articolata (quasi 3h, due atti) nella quale risuonano tutti i conflitti recenti esplosi negli ultimi decenni, dal Kosovo, passando per Israele e Palestina, arrivando all’onnipresente Russia sempre pronta a mostrare i muscoli, ora versus la Georgia, ora la Cecenia e infine l’Ucraina o il potere degli USA sul Sud America.
Da una parte il Governo di un Paese (inventato ma riconducibile a svariate situazioni nel mondo), dall’altra i terroristi, o i separatisti dipende da che punto di vista applichi alla faccenda. Un testo politico pungente, con più piani temporali, che tiene sul filo del thrilling attraverso il ritmo, la suspense, quel filo teso tra scoperta, sorpresa e pericolo che alimenta il pathos e tiene incollati al dialogo successivo, lontano dalla prevedibilità da una parte e altrettanto distante dal colpo ad effetto ad ogni costo che alla fine stucca e annoia.
Un testo, anche sofferente e doloroso, che potrebbe essere una tesina sui conflitti odierni, su chi finanzia e foraggia gruppi armati con il paravento bugiardo delle religioni diverse, ma anche una digressione-provocazione sulla diplomazia e sui compromessi, che forse non accontentano nessuno ma silenziano soltanto ambizioni e autodeterminazioni dei popoli, e una ragionamento anche sulle ONG che hanno necessariamente bisogno che gli scontri, le battaglie e le guerre non finiscano altrimenti svanisce il loro ruolo e non sono più così indispensabili.
Un testo utile, un teatro efficace, un Teatro dei Filodrammatici nuovo che affonda le proprie radici nel passato con verve, spirito di conoscenza, senza dogmi e paradigmi, senza paraocchi, con lo sguardo dritto e aperto nel futuro.
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