Come in pochi altri festival (ci vengono in mente quello Eco Logico di Stromboli, il Festival della Fiaba di Modena e Altre Visioni a Coltano a Pisa), a Campsirago la Natura è a stretto contatto con la performance e inscindibile, non è soltanto fondale e scenografia ma anche protagonista, vera prim’attrice.
E se la Natura accoglie il teatro può andare in scena, se il Bosco, il Verde richiedono una pausa di pioggia, non possiamo far altro che attendere fiduciosi, aspettare silenziosi tra queste baite di pietre, restituite alla loro originaria bellezza e potenza e imponenza, al legno, ai giganteschi paralumi costruiti con canne di bambù alte dieci metri, sdraiandoci sui tatami e guardando dai grandi finestroni infuriare la bufera, le nuvole gonfie, la Foschia che si fa materica, la Nebbia che sale agli irti colli.
Il piccolo borgo di Campsirago, che è diventata residenza artistica per l’intuizione di Michele Losi (appassionato di Giappone e Grecia) e soci (tra i quali il gruppo Scarlattine Teatro; all’anno inanellano 150 repliche in giro per il mondo), da diciannove anni è anche contenitore multidisciplinare del festival Il Giardino delle Esperidi (questa edizione dal 23 giugno al 2 luglio).
Prima un fabbricato, dove sembra di stare in una malga trentina, in una baita, in un maso, e da quest’anno anche un secondo stabile rimesso a nuovo utilizzando materiali originali della zona: sotto le cucine e il refettorio dove si pranza e cena rigorosamente tutti insieme (una mensa ma più gioiosa), e una falegnameria, sopra varie stanze per ascoltare musica (con l’installazione del raffinato impianto del Jazz Cafè in stile nipponico), rilassarsi, o utilizzate come sale prove.
A Campsirago ci si può prendere il tempo per riflettere, stoppare, pensare, fermarsi, respirare. I minuti sono più corposi, le lancette scorrono più dense, come sangue di ciclista dopato. La pietra ti dà la sicurezza della solidità, il meteo ti fa capire che non puoi controllare tutto e che puoi decidere in parte sulle tue azioni, sul tuo cammino, che non sei onnipotente, che sei un piccolo ingranaggio che ha senso soltanto se messo in relazione con tutto quello che lo circonda, gli altri esseri umani, animali, piante, alberi. Soprattutto gli alberi.
Se nei comuni brianzoli sottostanti è il cemento a farla da padrone, appena saliamo tra queste curve, appena ci allontaniamo dalle villette a schiera con l’armamentario di cancellate, inferriate, allarmi e cani ululanti a difesa della proprietà privata, ecco che tutto prende un’altra forma, si/ci relativizza.
Qui si può camminare, finalmente fuori e lontano dai rumori coprenti, ammorbanti, ovattanti, allappanti della città, dell’asfalto poroso, del grigio smog che ammanta e appiana le differenze uccidendo i colori. Quassù vigono altre priorità. Appunto, centrale è il trekking, il mettere un piede davanti all’altro non per correre ad un appuntamento ma per scoprire, conoscere, guardare con occhi nuovi le foglie, sentire i propri passi, riconoscersi come un tutt’uno, non più razza padrona ma elemento tra gli elementi, con curiosità e attenzione.
Il cammino è centrale e fondamentale (ricordiamo le produzioni Amleto. Una questione personale e Alberi Maestri itineranti e immersi nella boscaglia) anche in questo nuovo Hansel e Gretel, una passeggiata inquietante dentro le nostre paure ancestrali, quelle che fin da piccoli ci accompagnano come quelle dell’uomo fin dagli albori del Tempo. Un romanzo di formazione con varie stazioni e fermate e radure cardini, snodi dai quali ripartire, nel nero del buio della macchia di queste foreste selvagge già abitate da Celti e Longobardi e intrise di messaggi e misteri e fantasmi in un’atmosfera carica di Storia e Anime aleggianti.
Metti il nero della Terra che si miscela al nero del Cielo, metti piccoli sassi bianchi illuminati a comporre il sentiero-percorso delle briciole dei due bambini abbandonati, metti il rosso della serpentina delle cuffie (una cinquantina i partecipanti) che si snodano in una cromia che abbaglia dal basso e che sanguina a mezz’altezza, un racconto in rima che scivola nell’incubo, nel tremore.
Le voci dei bimbi in cuffia (le loro parola in audio arrivano come una stilettata ed entra a cercare gli organi per meglio colpirli dall’interno) come un segreto profondo raccolto e consegnato alle orecchie di ciascuno di noi, ci hanno condotto ne La trilogia della città di K mixando il tutto con Pollicino, con il Grillo Parlante pinocchiesco, tra filastrocche terrificanti, carillon tremebondi e musica dub a fare da grancassa con il ritmo accelerato del cuore.
L’inedia, l’indigenza e la miseria sembra di toccarle e tutti noi diventiamo i bambini cattivi di questi genitori ruvidi che ululano alla Luna: Che fame, che infame la vita. In cammino siamo tante fiammelle dantesche, anime perdute, una lingua di sangue a cercare di uscire dal labirinto delle nostre esistenze. Come nei migliori coup de theatre comincia a piovigginare e sembra un effetto di scrittura scenica in questa via crucis dove ora ti danno un lecca lecca, carezza corroborante che non ristora perché poi la scarpinata si inerpica, i sassi sono bagnati, le radici bitorzolute degli alberi impegnative.
Quando ci fermiamo davanti ad un campo di granturco con un personaggio con una maschera nell’ombra e una bambola in mano, pensare al Grano Rosso Sangue di Stephen King è stato semplice con mille brividi che hanno cominciato a galoppare facendo gincane sulla schiena, oppure quando siamo passati di fronte ad una teca colma di ossa i palpiti hanno preso a tambureggiare sterno e petto ricordando cannibali e riti voodoo.
Il bosco è crescita, opportunità, paura e salvezza, è il riuscire ad andare oltre i propri limiti, mettersi in gioco, con coraggio (come novelli Icaro) e sfidare le tenebre della Natura e quelle più profonde nostre intime, personali, interiori. Usciamo a riveder le stelle più forti e consapevoli.
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Di tutt’altro tenore, solamente in apparenza il play è leggero, è invece Wonderboom di Stefano Cenci (prod. Pensieri Acrobati, in collaborazione con Sotterraneo), una grande canzonatura, un’affabulazione istrionica e guitta, un’interpretazione piratesca e guascona che nasconde un messaggio per le giovani generazioni e una riflessione su che cosa stiamo lasciando e che cosa, al limite se ce ne fosse data la possibilità, voler esportare, salvare da questo pianeta in rovina, a causa nostra, e portarlo in un mondo vergine.
Perché l’Uomo ha fatto anche cose buone, non soltanto di polveri sottili e guerre si è pasciuto in questi millenni che ha abitato la Terra (e trasformato e violentato e modificato e distrutto la Natura). Ma è anche una vera e propria asta con dieci lotti da battere con il martelletto come da Sotheby o Christie’s dove Cenci fa il presentatore funambolico (negli anni lo abbiamo visto in tante digressioni sceniche con Punzo, Goretti, Tony Clifton Circus), ammaliatore suadente, il microfono in mano è la sua migliore arma, vestito come un Men in Black.
Presto l’asta si trasforma in una gioiosa da una parte e nostalgica dall’altra Hasta siempre, una critica nemmeno troppo velata al capitalismo che ha distrutto, al consumismo che ha disfatto. Il nostro è un mondo in dissolvenza, decadente, devastato, disgraziato e la causa è il money che tutto ha piegato alle logiche del mercato, le crisi economiche, i virus, i cambiamenti climatici.
Bisogna rifondare un mondo nuovo, ci dice. Le sue arringhe alternano momenti di pathos toccante ad arroganti e violenti gironi infernali. Dopotutto siamo alla Fine del mondo e il Final Countdown che lo vogliamo o meno è partito già da un po’. Questo Wonderboom (la meraviglia che esplode) ci ha ricordato, per la forma, L’asta del santo de Gli Omini. Il pubblico intanto gioca con soldi veri, con tanto di rilanci e mani alzate (non braccia destre tese, mi raccomando) per accaparrarsi quelle cose, materiali o immateriali, da portarsi idealmente via da questo declino e delirio in una nuova oasi incontaminata e immacolata da abitare.
Una sorta di grande Mercante in Fiera. E si batte il lotto dei luoghi più belli della nostra Geografia, come della Letteratura, o la Memoria, il Cibo, la Musica, i Diritti, l’Aldilà, la Paura, l’Innocenza e infine il Teatro, il tutto amalgamato con coreografie, musiche, cantanti locali che salgono sul palco, karaoke, in questo grande tritacarne felicemente caotico e folle che Cenci, dal suo podio-patibolo, sa creare e gestire e manovrare e maneggiare ad arte in un marasma dove Adriano Celentano si incastra con gli Abba che si mescolano alla hit Cocorito, uscendone sospesi tra il Wonder per quello che stiamo perdendo e il Boom inevitabile che non abbiamo saputo evitare invertendo la rotta soltanto a parole e mai realmente nei fatti.
Usciamo a riveder le stelle con un sorriso triste.