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Se è vero -come ci ha ricordato Alessandro Iachino al termine della partecipatissima Agorà di sabato 17 giugno mattina nel centro di Pomarance- che “la cultura non solo risponde a bisogni ma li crea”, una linea di possibile ancorché parziale restituzione di quanto incontrato nei giorni dell’Ouverture del Festival delle colline geotermiche voluto da Officine Papage, e criticamente fiancheggiato con grazia a sapienza in primis da Laura Bevione, è l’affaccio sul rapporto costitutivo con i luoghi che questa proposizione ha instaurato o, comunque, esplicitamente incoraggiato.
Inscrivendosi in una tensione estetica (dunque, etimologicamente, conoscitiva) che caratterizza i fatti d’arte dell’ultimo secolo (non tutti certo, ma almeno quelli di cui val la pena ragionare), la dodicesima edizione di questo Festival -teso, programmaticamente, a coltivare futuri– ha proposto nella sua apertura alcuni discorsi (termine qui usato nell’accezione foucaultiana che interroga il rapporto mai univoco fra potere e sapere) con gli spazi del vivere quotidiano.
In primis qualcosa che non abbiam visto, ma che ci è parso programmatico, inserire in un dispositivo culturale che si occupa di rapporto con il territorio, di linguaggi e sistemi dell’arte, e di futuro: alcune incursioni performative con bambini e bambine.
Si sa: nel nostro malandato sistema (di pensiero e produttivo), ciò che riguarda l’infanzia, nel mondo del teatro et ultra, vale già di partenza un po’ meno.
Discorso vecchio.
È come giocare in serie C, o D, o sotto.
Aprire l’apertura (si perdoni il gioco di parole) di un Festival con una cosa di e fatta da bambini: ci vuole un piccolo coraggio. E, soprattutto, una visione. Chapeau.
Per quanto ci riguarda, abbiamo iniziato con La Ribalta Teatro.
Minuscolo gruppo indipendente, a noi del tutto sconosciuto.
E, lo diciamo subito, una gran bella sorpresa: a dimostrare ancora una volta, semmai ce ne fosse bisogno, che la vispezza di quest’arte oggi resiste e fiorisce nelle periferie dell’impero, lontano dai grandi nomi ed eventi e premi.
Un teatro in fiore, diremo alla fine di questo articolo.
Comunque.
Quattro maschere (dunque, etimologicamente, persone) hanno proposto in una piazzetta entrando e uscendo senza posa dall’abitazione “di un americano” (di cui abbiam saputo esser stato estremamente difficile trovar le chiavi), uno spettacolo -primo capitolo, l’han chiamato, anche se a noi è parsa una creazione affatto autonoma e conclusa- sul tema dell’acqua.
Variazioni sul tema: in una sorta di acquatici Esercizi di stile à la Queneau, quattro artisti-artigiani (come non rimpiangere il tempo dorato in cui la téchne accomunava questi e quelli?) giustappongono parlare intonato e sincroni, composizioni vocali e fisiche, dialoghi e inserti televisivi.
Il tutto con una millimetrica padronanza nelle variazioni ritmiche e toniche, in un dispositivo esilarante in cui la cui comicità (ora di battuta, ora di situazione) si costituisce di reiterazioni, decontestualizzazioni e abbassamenti (broccoli che diventano bouquet di fiori, musica suonata con un povero flautino, …).
Tutto questo, ça va sans dire, pone al centro la questione radicale del linguaggio.
Dei linguaggi.
Non è mai eccessivo ricordarlo, la storia dell’arte è storia di linguaggio: del come, più che del cosa. Per cui, ovviamente, uno spettacolo “sulla guerra” del Living Theatre non ha la stesa rilevanza storica e artistica di uno spettacolo sulla guerra fatto nella parrocchia vicino a casa.
E il linguaggio, direbbe Deleuze, è un fatto.
Tanto quanto quella piazzetta (e quella scala, e quelle finestre) che sembrano fatte apposta per quello spettacolo: pare impossibile immaginarlo altrove, tanto è organica la relazione instaurata con quel luogo specifico.
Cartina di tornasole: un gruppetto di bimbetti scatenati del paese, che fino a un attimo prima dell’inizio facevano una confusione indiavolata, subito dopo immersi nella misteriosa forma del tempo del teatro.
Misteriosa forma del tempo è anche quella sperimentata nel Dittico dei rifiuti, nuova creazione in divenire dei padroni di casa.
Officine Papage ha improntato un dispositivo in cui il luogo più determinante di così non potrebbe essere: spazio drammaturgicamente attivissimo.
Una discarica, un cimitero, che si fanno motori di creazioni ineffabili e misteriose, che sdoppiano la consistenza spettatoriale in un io (ribadito dalle cuffie mediante le quali si sente individualmente, finanche privatamente ciò che viene offerto all’ascolto) e un noi che è, ontologicamente, la condizione del patto teatrale.
Dati scientifici giustapposti a un veemente invito a farli risuonare con il riverbero personale, autobiografico e psico-emotivo, che la parola chiave di queste giornate –rifiuti– nei suoi molti significati produce e induce.
È opera etimologicamente geometrica e geografica, questo Dittico, che ancora una volta pone al centro -con temperatura affatto difforme, vivaddio, dall’esempio precedente- il rapporto linguistico con uno spazio, che diventa parte viva dell’esperienza offerta al fruitore camminante (pare improprio, in questo caso, chiamarlo spettacolo).
«Stai camminando sulla terra, accanto a te i fiori di lavanda, ginestra ed erba medica. Sotto le radici di questi fiori, a una profondità di oltre un metro sotto questa terra c’è un amplissimo foglio di HDPE nero, polietilene ad alta densità, resistente alle sostanze chimiche e all’azione del tempo, usato per isolare e impedire che i rifiuti inquinino il suolo e le falde acquifere. Subito sotto uno spesso telo di tnt, tessuto non tessuto. Sotto ci sono circa 10 metri di rifiuti»: la voce dell’autrice Serena Gatti introduce la molteplice prospettiva cui il cammino con la discarica dà luogo: oggettiva e lirica, materica ed esperienziale.
E tesa -come l’arte fa, quando è tale- a dar corpo (vocalico, sonoro, materico, dunque linguistico) al genius loci di qualunque luogo: senza vetuste distinzioni tra alto e basso o meglio (o peggio) tra nobile e ignobile.
Ecco dunque spiegarsi, in un bilanciamento tra opposte polarità, l’insistita attenzione alla nettezza formale delle prospettive e delle composizioni di ciò che è dato a vedere, ai paesaggi che si costruiscono nello e attraverso il passo e lo sguardo.
Ciò fa da contraltare, pasolinianamente, a una soggiacente nostalgia verso una condizione primigenia di naturalità e possibile autenticità che trova nel rude paesaggio attraversato il paradossale correlativo oggettivo del proprio desiderare.
Come nelle ultime esortative, beneauguranti parole offerte all’ascolto (e, materialmente, alle persone in cammino, prima di andar via):
Lascia, lascia andare
e lasciando lascia andare
perdonati
per-donare te stesso senza scorie
per-donare, donarti senza condizioni
lascia lascia andare con grazia
non tutto puoi fare
ma sì disinquinare
mettere al giusto posto il fiuto e il rifiuto
fare pulizia, setacciare, ordinare,
rovesciare i pensieri
come lavando i capelli si rovescia la testa
aprire la finestra, far passare l’aria
ripulire il non detto, il troppo, il troppo poco,
l’ombra che fa male.
E perdonare, donarsi il cuore sgombro
l’essere in vita senza lacci
rimproveri, freni, ammonimenti, gabbie,
scendere a patti con lo scarto, lo sporco
tirarlo fuori, riporlo, trovargli posto
e togliersi dalla corsa paralizzante
spostarsi di carreggiata
uscire a mutare i pensieri che sono nati per fiorire.
Puri, benevoli moltiplicatori di dono e perdono
con i sensi distesi
indichiamo un’altra orbita
quella di un corpo esperto di gioia.
Tutto ciò è esploso nella creazione al cimitero, nella quale le suddette polarità sono incarnate dai corpi vocali degli artisti, complementari per temperatura e aderenza al reale, lasciando a ciascun camminante la scelta di dove dirigere il passo e l’attenzione.
O, meglio, confidando nella funzione significante del luogo, nella sua capacità di raccogliere, tradurre e restituire risignificati gli sguardi.
Nella forza paradossalmente generatrice di questo posto di morti paion confidare, Marco Pasquinucci, Nicoletta Bernardini e la già nominata Serena Gatti, in una proposizione che è un radicale quanto accogliente atto di pensiero e di fiducia nelle possibilità creatrici, finanche creaturali, di tuttə e di ciascunə.
Solo una visionaria, maieutica fede in un possibile noi -che parte dall’atto elementare e concretissimo del prender parola e dare attenzione- può aver dato origine all’Agorà nominata in apertura: gesto curatoriale teso a intrecciare numerosissime prospettive e collocazioni rispetto alla società e al suo farsi per cercare di tracciare una possibile via altra che “non esprime né potere né sottomissione al potere”, per dirla col Gilles Clément citato da Laura Bevione.
A partire dal titolo-tema evocante i rifiuti molti sono stati gli stimoli offerti in questo atto di pensiero collettivo e condiviso: dalla possibilità che tutto torni a esser sorgente di vita alla preziosissima pratica di indagare insieme ad altre persone i molti significati di un termine (in questo caso, appunto, rifiuto, nelle sue diverse accezioni e declinazioni), dalla complessità come bisogno alla negoziazione continua. Tanto si potrebbe (e forse dovrebbe) continuare, ma ci sembra che questi pochi esempi diano la temperatura di un modo di intendere l’arte (e la curatela come gesto artistico): attivazione linguistica di un qui e ora geografico e sociale.
Verso un’utopia del noi.
Per chiudere -e per subito riaprire- queste righe: un’immagine.
Teatrino Giullare che legge alcuni testi di Giuliano Scabia nel Boschetto di Gallerone, a Pomarance.
Una figura seduta su un ramo, gambe a penzoloni: come non pensare alla celebre fotografia del poeta d’oro?
Chiudiamo allora con alcuni suoi versi, che ci sembra possano evocare (certo meglio di noi) quanto a Pomarance e dintorni (e non solo) Officine Papage cerca ed edifica, con sapienza e pazienza:
Chi è un fiore?
Uno che sboccia, fiorisce e sfiorisce.
Per chi fiorisce?
Per sé – per essere fiore.
E Fiore lo spazzino
lui sì vero re del mondo
per chi canta?
Per sé canta – per la gioia di sé.
O gente che corre
inseguita dall’ansia:
cos’è il bene per un fiore?
Fiorire.
E per voi dinosauri?
E per noi del Pavano Antico
cos’è il bene?
Essere in fiore.
Far sì che il difficile
attraversamento della vita
sia un teatro in fiore –
il teatro della nostra vita
in fiore – anche accanto alla morte:
godendo del fiorire di noi e di tutti, perfino
dentro il lato oscuro che ci spaventa
e ci nutre.
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