Ci sono recensioni più difficili di altre.
Come questa.
Per due motivi, almeno.
Primo motivo: dopo aver incontrato, esercitando la funzione critica, le visioni di Maria Federica Maestri e Francesco Pititto un decennio fa (I Promessi Sposi e Hamlet Solo, le prime loro creazioni a cui ho assistito), sono seguiti otto anni di quotidiana, intensa collaborazione come ufficio stampa e comunicazione. “Dall’altra parte” rispetto alla critica, dunque. Qualche settimana fa, dopo tanto guardare le opere di Lenz Fondazione dall’interno, per la prima volta son tornato a Parma un passo a lato. Prima domanda: quanto (consapevolmente) la posizione del soggetto guardante condiziona l’atto stesso del guardare? In concreto: da dove osservare, oggettivamente, il loro lavoro? E aggiungo: è possibile farlo? E in ogni caso: è auspicabile?
Secondo motivo: l’universo creativo, finanche creaturale di Lenz si caratterizza, fra i molti in cui mi sono imbattuto in questi molti anni, per radicalità poetica e peculiarità linguistica, in perenne edificazione di un’idea e una prassi di durezza e bellezza (prendo a prestito queste parole dal titolo di una serie di dodici manifesti di poetica di Maestri e Pititto) che sovente nella loro biografia artistica procede per reiterati affondi, senza nulla concedere alle mode fugaci, ai facili ammiccamenti, al divertimento etimologicamente inteso. Seconda domanda: si può restituire in poche righe tale costitutiva complessità?
Come spesso accaduto nella loro storia, ancora una volta lo scavo ha richiesto di tornare -senza deviazioni, appunto- su una medesima scaturigine testuale: miccia che innesca, in epoche differenti, differenti esplosioni. In questo caso il dramma incompiuto Catharina von Siena di Jakob Michael Reinhold Lenz, a cui Maestri e Pititto avevan già dato consistenza scenica nel 1987, nel 2000 e nel 2004.
Sia detto per inciso: il nome dell’ensemble viene da un altro Lenz, quello di Georg Büchner, prima loro creazione (marzo 1986). Al di là del dato meramente teatrografico, tale coincidenza è significativa di una piena aderenza tra l’opera e chi la crea, di chi attraverso essa intenda manifestare il proprio élan vital, finanche la propria essenza (uso questo termine conscio di quanto sia scivolosamente largo).
Vi è, credo, qualcosa di particolarmente essenziale ed elementare, in questa Catharina.
Il pubblico è seduto su due praticabili posti ai lati dello spazio scenico, a dar corpo e plausibilità a un teatro anatomico in cui si offre, possente corpo-teatro di voce e carne, Sandra Soncini: insieme a Carlotta Spaggiari e Tiziana Cappella con dedizione e grazia di officianti danno luogo a un accadimento che par riduttivo, o comunque improprio, chiamare spettacolo.
È una sorta di opera d’arte totale à la Wagner, questa Catharina di Lenz, in cui molte arti si compenetrano per elidersi a vicenda e lasciar affiorare, potremmo dire con Grotowski, something third, né personale né storico ma trascendente, aggettivo che, vale forse ricordarlo, nell’etimologia rimanda allo scavalcare fisicamente un ostacolo.
Sembra di poter sintetizzare che i molti elementi che di concerto compongono la scena, questa scena, siano intesi da Maestri come trampolino (Grotowski, ancora) per sporgersi verso un altrove (santo? santificato?) che fa coincidere il fatto teatrale e la propria origine rituale nel segno, salvifico e vertiginoso, del mistero.
I lavabi allineati in scena contengono, in purezza, i colori-base che comporranno le liquefatte imagoturgie di Pititto, come se i volti sacri non possano persistere al cospetto dell’umano troppo umano che, di fronte a loro, accade: che siano nascite o trasalimenti, invocazioni o esortazioni poco cambia, si tratta sempre di un’umanità inconsolata e scalciante, quella che Lenz celebra e (rap)presenta.
Dal punto di vista compositivo, coppie di opposti si offrono senza posa alla ricezione: pesantezza e leggerezza (o, meglio, lo strenuo -commovente proprio perché impossibile- opporsi a una gravità che schiaccia e annichilisce), alto e basso (le savie parole e la povera maschera carnevalesca dell’interprete, in apertura, a irridere l’opportunità, finanche la possibilità stessa del rappresentare), immanenza e trascendenza (nel senso tutto corporeo a cui si accennava), persistenza e labilità (dell’immagine, dunque della lingua stessa), possibilità e impossibilità a significare (non a raccontare, si badi bene, che non è sul piano della narrazione che si articola il fare di Lenz: esso abita, piuttosto, i territori mistici e misterici della poesia, della liturgia), assennatezza e alterazione (la lucidità con cui tutti gli elementi di questo fatto, per dirla con Deleuze, sono preludio a qualsivoglia possibile estasi, parola che nell’etimologia rimanda all’uscir da sé).
Ancora, dal punto di vista della composizione delle funzioni attorali, pare opportuno notare come Spaggiari e Cappella siano chiamate a destrutturare senza posa, sommessamente e al contempo spietatamente, la possente assertività scenica di Soncini: obliterandone il corpo (come non pensare a Yayoi Kusama?), scomponendo, come si diceva, in elementi primari le figure a cui Soncini-Catharina dà corpo, in un corpo a corpo con i segni e i sensi che lascia esausti ed ebbri, svuotati e appagati, a render più esigente di vita la vita di ciascuno.
Tanto altro si potrebbe e forse dovrebbe dire su questa creazione, sui molti saperi che con ogni probabilità l’han nutrita (uno su tutti: l’arte medicamentosa e nutriente di Joseph Beuys, forse anche di Hermann Nitsch); sulle avvolgenti musiche di Andrea Azzali e Adriano Engelbrecht che funzionano come contenitori in trasparenza di consistenze sceniche diverse o, meglio, come prismi che tali consistenze rifrangono; sul paradosso del barocco contemporaneo (così dicevamo, anni fa, in tutt’altro contesto progettuale) di un ensemble che fa collidere alcuni elementi primari, finanche biologici, dell’accadere performativo con una stratificazione che de facto moltiplica significanti e significati: questa è, in parte, la storia artistica di Lenz.
Una storia che per un po’ è stata anche la mia.
Da qui oggi, un passo a lato, guardo il loro lavoro, di durezza e bellezza pieno.