Ai Weiwei a Bologna. Distruzione, costruzione, smottamenti

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Diciamolo: attraversare una mostra personale di Ai Weiwei è come sguazzare per un’ora o due in una vasca d’umor nero.

E non per forza è una cosa spregevole: dipende dalle attitudini.

Dalle prospettive.

Quella del perseguitato (in patria) e blasonato (in Occidente) artista cinese pare riassumersi con la categoria definita da Francesco Bacone nel 1620: pars destruens.

Detto altrimenti, una vocazione radicalmente critica tesa all’eliminazione delle idola (in latino, “fantasmi, rappresentazioni mentali”).

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RAPPRESENTAZIONI MENTALI

In questa coppia sostantivo + aggettivo sta, forse, il mestiere di Ai Weiwei.

Artista visivo, si sa: dunque creatore di immagini e, generalizzando, di rappresentazioni.

Mentali: sempre allargando, si potrebbe dir concettuali, nel senso comune del far prevalere l’idea, il pensiero che genera l’opera sulla sua materiale realizzazione (cosa di cui peraltro il Nostro quasi mai si occupa, come ha a chiare lettere più volte dichiarato).

L’attitudine iconoclasta di Ai Weiwei, nella mostra personale Who am I? che a Palazzo Fava, a Bologna, sarà visitabile fino al prossimo 4 maggio, si realizza in molti modi, che in primis agganciano le più o meno consapevoli comuni categorie su cosa è arte e cosa non lo è.

Meglio: su cosa è Arte con la maiuscola e su cosa no.

Serie A e serie B, cose del genere.

Opere che proprio lì, nello iato tra ciò che dovrebbe essere e ciò che è, tra ciò che è Bello e ciò che lo è un po’ meno, collocano il proprio fuoco.

Lì sferrano il colpo, si potrebbe dire con gergo pugilistico.

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L’ESEMPIO PIÙ CHIARO

Sia chiaro: suggeriamo una visita.

La consigliamo, sia detto per chi è poco o nulla addentro alle stramberie dell’arte contemporanea, muniti di un’attitudine a farsi rivoltare un po’.

A fare un po’ di sana ginnastica, saltellando tra noto e ignoto, alto e basso, edificazione e smantellamento.

L’esempio più chiaro, finanche tautologico, di tale inclinazione denstruens è il trittico Dropping a Han Dynasty Urn del 1995.

Lì, poco distante, c’è anche la vetrinetta con i frammenti di questo reperto di circa duemila anni fa che il Nostro ha intenzionalmente distrutto.

Su un altro analogo vaso fa imprimere il logo della Coca-Cola: «Avevo questo vaso da un po’ e ne ammiravo la forma, ma non sapevo cosa farne».

Ancora: capolavori della Storia dell’Arte occidentale ricreati, in enormi dimensioni, con migliaia di minuscoli mattoncini Lego.

Pixellati, plasticizzati, dissacrati.

Per meglio pixellare (frammentare) e dissacrare l’idea di Arte che abbiamo in mente.

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C’È ANCHE LA TRUMP TOWER

Ancora: dodici stampe, del 2022, in cui Ai Weiwei mostra il dito medio in segno di disprezzo a una serie di simboli del potere occidentale (politico ed economico, artistico e sociale).

Si va dal Colosseo alla Trump Tower, passando per la Gioconda.

Meglio: per la gente davanti alla Gioconda, in un’immagine peraltro sfrontatamente sfocata.

I livelli di scientifica iconoclastia si moltiplicano, gli esempi abbondano: ancora uno, e poi basta.

Ancora la Gioconda è presa ad oggetto.

Meglio, a trampolino: per far fare capriole alle nostre categorie estetiche – dunque, letteralmente, conoscitive.

Monna Lisa, si sa, è l’opera d’arte più nota della e nella cultura occidentale.

Infiniti gli artisti che hanno creato un proprio discorso a partire dall’opera di Leonardo e/o dalla sua ricezione.

Ai Weiwei raddoppia la dissacrazione: prima la pixellizza e plastifica rappresentandola con i mattoncini Lego, poi vi aggiunge lo sfregio di una bella strisciata di crema, sopra.

Il pensiero corre, ovviamente, alle recenti proteste ambientaliste mediante imbrattamenti di opere d’arte: l’attivismo di Ai Weiwei e di molte altre persone assume forme in merito alle quali non entriamo, ora.

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SOMETHING THIRD

Quel che vogliamo però almeno nominare (non è certo questa la sede per un’analisi approfondita) è l’effetto construens generato dall’intreccio fra quelle opere e il luogo che le accoglie.

È sempre interessante, nell’incontro di forme culturali, l’originarsi di significati terzi.

Ed è ciò che più emerge, nell’esposizione bolognese.

Certo, gli affreschi tardo-cinquecenteschi dei Caracci sotto ai quali stanno le opere del Nostro procurano efficaci cortocircuiti di significanti e significati.

Volendo ancora, per dover di brevità, nominare un solo esempio, a mo’ di sineddoche, ritorniamo al primo fatto in queste note.

Il trittico Dropping a Han Dynasty Urn è ospitato nella Stanza delle Grottesche, decorata da Cesare Baglione.

La decorazione a grottesca, vale forse ricordarlo, è caratterizzata dalla raffigurazione di esseri ibridi e mostruosi.

L’aggettivo grottesco, si sa, rimanda a qualche cosa di deforme e innaturale, di paradossale e inspiegabile, tale da suscitare reazioni contrastanti (dal riso all’indignazione).

In letteratura è uno degli aspetti del comico, fondato su una voluta sproporzione degli elementi costitutivi di un momento drammatico.

Questo fa, l’incontro tra queste opere d’arte: crea smottamenti.

Questa è l’opera dell’arte, di questo incontro di mondi.

E non è poco.

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