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«Da anni parlo di teatro popolare e di ricerca. Ma bisogna intendersi. Teatro popolare significa elevare e non abbassare la forza e l’emozione poetica. Popolare è il Teatro greco. Popolari sono Shakespeare e Mozart. Il pubblico deve ritrovarvi la bellezza, averne nostalgia e rivendicarla nella vita, nella società»: vien da ripensare a Leo de Berardinis, a quel che raccontava a Bologna nel 2001 mentre gli veniva conferita la laurea honoris causa al DAMS, apprestandosi a scrivere qualche breve nota su un accadimento poetico e politico, zeppo di mondo e che di mondo si inzuppa, a cui ho partecipato ormai più di un mese fa a Faenza.
Parlo de Il campione e la zanzara, inusuale spettacolo da fruire in bicicletta, metrica che si fa nei metri che insieme percorriamo, opera di un ancor più inusuale ensemble, Faber Teater.
Piemontesi «con i piedi fortemente poggiati sulle nuvole», per dirla con Ennio Flaiano, da oltre un quarto di secolo coltivano con cura un’utopica pratica di condivisione (regie collettive, collaborazioni multidisciplinari e internazionali, artigianato teatrale, altre meraviglie) un cui recente frutto corale, Il campione e la zanzara appunto, han presentato a Faenza, in apertura dell’edizione 2024 del progetto socialità Ci vediamo al Parco a cura del Teatro Due Mondi, il 4 settembre scorso.
Mai contenitore (progettuale) fu più adatto al contenuto.
O viceversa.
Quel che conta, qui, son le intenzioni.
Ne nomino almeno tre.
VIVACIZZARE
Meglio: vivificare. Rendere un luogo più vivo. E la gente che lo attraversa, chi si imbatte fortuitamente nello spettacolo insomma, più esigente di vita. Che è poi quel che diceva de Berardinis.
INTRATTENERE
Uh che brutta parola, per i sapientoni del teatro, intrattenere. È cosa che non si fa, no no no, di serie B o C o Z, sarem mica giullari! Meglio minestroni cervellotici, sbobbe soporifere, polpettoni concettuali che a digerirli ci vuole una settimana. Qui, invece (e quando dico qui intento il contenitore e il contenuto, il progetto faentino e lo spettacolo chivassese), si intrattiene in senso letterale, etimologico: si trattiene a sé, per la gioia d’essere un noi, con voci e corpi e colori e musiche e storie e ritmo e sudore e lavoro e lavoro e lavoro d’artigiani di un’arte millenaria che ogni volta, di colpo, mentre accade scompare.
ALLARGARE
La percezione, la ricezione. Un esempio fra molti questo Campione lo fornisce in ouverture: arrivano sulle loro biciclette gialle i personaggi, buffi clown multicolori e mascherati, un po’ odiniani e un po’ balinesi, a filosofeggiare per eccessi e iperboli sul tempo e la sua durata – e intanto chiamano il pubblico e spostano uno spettatore che si è piazzato un po’ lì nel mezzo e dagli amplificatori che hanno come zaini vien fuori una musica malinconica e bellissima, Spiegel im Spiegel di Arvo Pärt, e io che guardo -arrampicato al mio sellino- non so se ridere o commuovermi. Non so se quella che ho davanti è una scena comica o uno stralunato discorso sapienziale, se è Commedia dell’Arte o altro che, vivaddio, non so etichettare.
E POI
Dopo le intenzioni, ci sono le azioni, e il loro effetto.
Il primo, quello che allarga il cuore, è vedere le facce della gente che si allargano, mentre ci spostiamo -piccola flotta pedalante- da Piazza del Popolo al Parco Liverani e infine al Parco Azzurro.
Centro e (prima) periferia. Luoghi toccati (e dir toccati è un eufemismo) dall’alluvione: scelta poetica e politica.
LE FACCE, DICEVO
Facce di molti colori, con e senza rughe, con e senza occhiali alla moda e denti e sigarette e barbe e rossetti, ad allargarsi in sorrisi con e per Francesco Micca, Marco Andorno, Lodovico Bordignon, Lucia Giordano, Paola Bordignon e Sebastiano Amadio, che pedalano e sventolano mani, pedalano e richiamano, pedalano e indirizzano, mentre dalle loro schiene amplificate le note della Penguin Cafe Orchestra battono il tempo.
È l’epica vicenda biografica e sportiva di Fausto Coppi, quella che in un preciso equilibrio di dismisure ed esattezze, sincroni e variazioni, reiterazioni e salti narrativi, apparente confusione e artigianale precisione le sei Figure raccontano.
Meglio: mettono in (pedalante) azione.
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TEATRO VAGANTE
Con grande, anti-economico dispendio di energie, colori, parole e azioni, in un continuum cum figuris sapientemente orchestrato da Mario Chiapuzzo, attore, regista e drammaturgo di lunghissima esperienza tra Oriente e Occidente e maestro di molti teatranti (tra cui, in questo caso e in tempi molto diversi, gli ospitanti e gli ospitati).
Questo teatro vagante (per dirla con un gran Maestro dell’andare poetico e politico, Giuliano Scabia), andante (per dirla con lo stesso Faber Teater) non si ferma, nonostante il mondo vada, in un certo senso, da tutt’altra parte.
Verso dove, dunque e ordunque, qui si pedala?
Verso la rivoluzione di cui ci parlava de Berardinis?
Qual è, infin, il risultato atteso di tanto daffare?
Il risultato, qui, non è certo nella corsa ai Premi Ubu.
Non è nella benevolenza sussiegosa e occhiuta della critica à la page.
Il risultato, qui, è nelle facce della gente.
Facce di molti colori, con e senza rughe, con e senza occhiali alla moda e denti e sigarette e barbe e rossetti, ad allargarsi in sorrisi.
Il risultato, qui, per ospitati e ospitanti, è tra la gente: tra ciò che importa.
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Ecco allora che per finire queste brevi note torno a Giuliano Scabia, uno che sapeva dire quel che va detto con esatte parole.
Ed alcune, tra quelle che ci ha lasciato, mi paiono perfette, per suggerire questo spettacolo pedalante, e il lungimirante progetto di socialità che l’ha accolto.
Chi è un fiore?
Uno che sboccia, fiorisce e sfiorisce.
Per chi fiorisce?
Per sé – per essere fiore.
E Fiore lo spazzino
lui sì vero re del mondo
per chi canta?
Per sé canta – per la gioia di sé.
O gente che corre
inseguita dall’ansia:
cos’è il bene per un fiore?
Fiorire.
E per voi dinosauri?
E per noi del Pavano Antico
cos’è il bene?
Essere in fiore.
Far sì che il difficile
attraversamento della vita
sia un teatro in fiore –
il teatro della nostra vita
in fiore – anche accanto alla morte:
godendo del fiorire di noi e di tutti, perfino
dentro il lato oscuro che ci spaventa
e ci nutre.
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