Lo spazio della danza. Note su Hangartfest

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Laura Gazzani, Graziosissimo - ph Riccardo Speca

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Michel de Certeau, nel suo fondativo L’invenzione del quotidiano, propone una distinzione che vorrei porre alla base di queste brevi note su un mio velocissimo primo passaggio conoscitivo a Hangartfest, a Pesaro, il 9 ottobre scorso, sul finire della sezione live e alla vigilia di quella dedicata alla videodanza e alle nuove tecnologie, chiamata Videobox.

Spiega il gesuita e filosofo francese: «È esclusa la possibilità che due cose possano trovarsi nel medesimo luogo […] Un luogo è una configurazione istantanea di posizioni. Implica una indicazione di stabilità», mentre «si ha uno spazio nel momento in cui si prendono in considerazione vettori di direzione, quantità di velocità e la variabile del tempo. Lo spazio è un incrocio di entità mobili».

Vettori di direzione, velocità, tempo, incrocio di entità mobili: sembra di parlare di danza!

E, tornando al caso pesarese, da ventuno edizioni anche di un dispositivo curatoriale che quest’arte accoglie, custodisce e rilancia.

Soggettività artistiche di diverse attitudini ed esperienze sono quelle che, in un composito intreccio di ospitalità, coproduzioni a orizzonte triennale, creazioni site-specific in contesti proteiformi, sono organizzate in un discorso comunicabile.

A proposito di comunicazione: per cinque anni anche l’autorevole critica di danza Silvia Poletti è stata coinvolta in progetti di attivazione del pubblico.

A proposito di intreccio: Hangartfest è parte della rete nazionale Giacimenti (info QUI).

«Lo spazio sarebbe rispetto al luogo ciò che diventa la parola quando è parlata, ovvero quando è colta nell’ambiguità di un’esecuzione»: torno per l’ultima volta a de Certeau -anche se per mio sommo piacere e nutrimento si potrebbe sostare in sua compagnia molto più a lungo – per introdurre due frammenti che ho incontrato, nl Festival 2024, due piccole creazioni che fanno del permanere nell’ambiguità, nell’abitare il limine, la loro cifra peculiare.

 

Laura Gazzani, Graziosissimo – ph Umberto Dolcini

 

Graziosissimo di Laura Gazzani articola una breve, algida coreografia in cui il celebre port de bras, uno degli stilemi più riconoscibili della danza accademica, viene reiterato in una composizione geometrica in sincrono e progressivamente trasdotto in significanti che possono suggerire alcune danze di matrice popolare, finanche pop.

Tre figure vestite di nero con il minimo correttivo di alcuni filamenti colorati cuciti agli abiti, agiscono in un set bianco in cui, rivolte al pubblico, eseguono con discontinua precisone una partitura che asseconda l’andamento di musiche battenti, affatto orecchiabili.

Il pubblico è accompagnato su uno stretto crinale: da un lato l’immediato coinvolgimento che una scrittura così semplice, geometrica e ripetitiva che ribatte musiche tanto note e easy può generare, dall’altro la dissonanza, finanche il fastidio, che l’intenzionale estenuata ripetitività delle forme può far sorgere.

QUI il trailer di Graziosissimo.

 

I need a fix

 

Ogni creazione di videodanza, si sa, abita ontologicamente il limine: il discorso (termine qui usato nell’accezione focaultiana di articolazione dialettica tra potere e sapere) di un videoartista o di un regista si relaziona con quello di un coreografo.

Nel caso di I need a fix di Romain Winkler, regista cinematografico franco-americano con sede a Parigi, motore è la musica dello spettacolo coreografico di Alban Richard, Fix Me, composta da Arnaud Rebotini.

Chi lo desidera può vedere QUI quest’opera, che ha vinto Videobox 2024.

Vale sottolineare, di I need a fix, oltre alla suggestiva ironia del titolo, due aspetti.

Uno drammaturgico: «Utilizzando filmati di sermoni di pastori americani, di proteste politiche e di oratori, è stato creato un lessico di movimenti» si legge nella scheda di presentazione «Durante lo spettacolo, gli interpreti non potevano sentire la musica, ma traducevano attraverso i loro corpi i sermoni che solo loro potevano sentire attraverso le cuffie».

Uno formale: «Il film presenta un accumulo di corpi tormentati abitati da molteplici affetti» spiega, ancora, l’autore «Espressioni facciali, sguardi, gesti, moltiplicati in un montaggio spesso tremolante, assumono una dimensione sciamanica, come una seduta di ipnosi collettiva».

Allontanarsi da ciò che è stabilizzato, fare a meno del garantito: «farsi luogo» de Certeau, ancora «incrocio di entità mobili».

In un panorama contemporaneo sempre più abbarbicato attorno ai soliti rassicuranti nomi à la page non è cosa da poco: bisogna saperlo fare.

Bisogna volerlo fare.

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