Esercizi sulla tavola di Mendeleev. Due giorni all’Umbria Factory Festival

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Dmitrij Ivanovič Mendeleev

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Non è che uno, per nominar Napoleone, deve averlo conosciuto di persona.

Neanche Mozart, per dire, dev’esser stato per forza un nostro vicino di casa, per poterne parlare.

Pensiamo a chi passa il tempo a invocare di Gesù: pura astrazione. Atto di fede, letteralmente.

Io, dalla mia piccola laica prospettiva ho pensato spesso a questo titolo, Esercizi sulla tavola di Mendeleev, nei due giorni che ho passato a Foligno, il 12 e 13 ottobre scorsi.

A Foligno, ho scoperto, ci sono molte cose interessanti.

Alcune più di altre.

Ne nomino tre.

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UNO

La prima è che ci abita Stefano Romagnoli. Che lì ha la sua mitologica bottega da elettricista. Stefano Romagnoli, per i pochi che leggessero qui e non lo conoscessero, è uno spettatore.

Meglio: è Lo Spettatore.

Meglio ancora: è Lo Spettatoreprofessionista (rigorosamente tutto attaccato).

Forse lo avrete ascoltato dispensar consigli erranti su Rai Radio3, nei fine settimana d’estate, se ascoltate Rai Radio3.

Certo lo avrete incrociato in qualche teatro, se vi piace andar per teatri.

Stefano Romagnoli è, in assoluto, la persona più genuinamente appassionata di teatro che io abbia mai incontrato. E questo mica per forza è un pregio.

È però anche una delle persone più gentili e genuine che io abbia mai incontrato. E questo sì, è senza dubbio un pregio.

Comunque.

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ph Nicola Cirocchi

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DUE

A Foligno c’è anche la Calamita Cosmica di Gino de Dominicis.

Uno scheletrone lungo ventiquattro metri, largo nove e alto quattro che occupa per intero una ex chiesa, quella della Santissima Trinità in Annunziata.

Su quest’opera gigantesca e sul gigante che l’ha concepita non apro discorsi, perché -per troppo amore- potrei non finirla più.

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E TRE!

Poi a Foligno c’è l’Umbria Factory Festival, che è poi il motivo per cui ci sono andato, a Foligno, il 12 e 13 ottobre scorsi.

È una intrapresa culturale, l’Umbria Factory Festival, che con la passione di Stefano Romagnoli e gli azzardi linguistici di de Dominicis ha molto a che fare.

Esiste da quattro anni, io ci sono stato solo due giorni: è dunque una giovane esperienza incrociata molto parzialmente, e per la prima volta, che desidero ora sorvolare.

Nessuna pretesa di esaustività, dunque.

Soprattutto, nessuna lista della spesa di spettacoli belli e brutti: «mi è piaciuto (o non mi è piaciuto) e vi spiego perché» è una modalità di restituzione che non fa per me.

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EPPURE

Io, nel mio piccolo, ho pensato a Mendeleev, al suo approccio elementare e tassonomico, in quelle due giornate.

E anche dopo.

Ci ho pensato perché lui, lo scienziato russo, il buon vecchio Dimitrij Ivanovič, nella sua famosa Tavola ha fatto una cosa che ci vuole una visione, a pensarci.

Era il 1869, l’anno dell’ideazione della sua Tavola periodica degli elementi e lui, in quella tavola, ha lasciato degli spazi vuoti.

E allora, direte?

Che ci vuole, penserete?

Embè, sussurrerete?

Lui, Dimitrij Ivanovič, quegli spazi li ha lasciati vuoti pensando agli elementi chimici che nel 1869 non erano ancora stati scoperti (e che in effetti lo sarebbero stati solo un secolo dopo).

E stiam parlando di chimica, mica di stramberie artistoidi.

Eppure.

Quello e questo: dispositivi per quel che ci sarà, ho pensato nei due giorni a Foligno, all’Umbria Factory Festival.

Ci vuole una visione, ho pensato.

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Teatro Settimo, Esercizi sulla tavola di Mendeleev, 1984

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UNO SPETTACOLO CHE NON HO VISTO

E ho pensato anche a questo titolo, Esercizi sulla tavola di Mendeleev, che è di uno spettacolo che non ho visto.

È l’opera-manifesto di un gruppo mitico, degli anni in cui il teatro di gruppo era ancora un modello poetico e politico.

Teatro Settimo, si chiamava.

Era il 1984, quarant’anni fa tondi tondi, quando debuttò al Festival internazionale del teatro in piazza di Santarcangelo.

Quando ancora in quel Festival, nel nome e nei fatti, c’erano il teatro e la piazza.

Poi ha girato il mondo, quello spettacolo: Salisburgo, Madrid, Melbourne, Amburgo, Barcellona. E non solo.

Un regista, tredici persone in scena, a dar corpo e voce ai tre stati della materia: solido, liquido e gassoso.

Tutto cambia, si sa, e la materia -basta prestarle attenzione- ce lo ricorda.

Teatro Settimo oggi non esiste più e quelle persone han preso strade diverse, con diverse fortune.

Quel che rimane, in quest’arte ineffabile che è il teatro, in quest’architettura dell’impalpabile che è la danza, in queste avventure dell’umano sapere e sentire che nell’esatto istante in cui accadono scompaiono… quel che rimane, di queste due giornate folignati passate a sbirciare modi e mondi di significanti e significati, sono alcuni elementi, di questo fare insensato e santo, alcuni frammenti che vorrei ora almeno nominare.

Va da sé: senza far giustizia alla complessità di nessuno o di nessuna – artistə, spettatorə, curatorə.

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ALIVE AND KICKING

Nominare elementi come esercizio di memoria di cosa costituisce quest’arte che Michele Bandini, Emiliano Pergolari, Mariella Nanni, Elisabetta Pergolari e molte altre soggettività tra loro vicine fanno esistere e scalciare, si potrebbe dire parafrasando i Simple Minds.

Cito la mitica band scozzese di Jim Kerr e compagni, uno dei fari della mia adolescenza, per la vivace semplicità del loro nome, che è una delle cifre evidenti di questa Factory.

Che, nomen omen, è luogo del fare. Insieme.

Ben distanti dai molti club privée (pagati con soldi pubblici, non dimentichiamocelo mai) del nostro morente panorama contemporaneo à la page, qui si tiene ben presente chi con le proprie tasse questa avventura di segni e di senso la paga: le cittadine, i cittadini.

Anche e soprattutto quelli che al Festival non ci vanno.

Che non sanno neanche che esiste, l’Umbria Factory Festival.

Ciò non faccia pensare, si badi bene, a una programmazione ammiccante fatta di scoregge e battutine sexy, ballettini e trombettine.

Ecco dunque il primo elemento che mi porto a casa, dai due giorni a Foligno: l’ETICA DELLA REALTÀ.

Niente di nuovo, per carità: basti pensare ai Comici dell’Arte, nel Cinquecento, a quanto il loro fare fosse al contempo completamente leggibile (e piacevole, e accattivante) e linguisticamente accurato.

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Ecole française, Troupe de comédiens italiens (les Gelosi ?), 1580. Huile sur toile. Musée Carnavalet, Histoire de Paris.

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UNO PER UNO. O DUE. O TRE

Tornando alla suddetta Tavola, nominerò ora, per esercizio, per ciascuna delle creazioni incontrate uno o più elementi che mi pare corretto ricordare come costitutivi di quest’arte che da diverse prospettive in tantə approssimiamo.

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ANNA BASTI _ LE CLASSIQUE C’EST CHIC!

ALLENAMENTO il Novecento è stato teatralmente definito «Il secolo degli Esercizi», per il valora pratico ma anche poetico dato alla preparazione del corpo artistico.

Ricordarcelo, in questo dispositivo che accadendo nella piazza ha in sé mille significati politici evidenti, rimanda alla seconda parola: DECONTESTUALIZZAZIONE.

Ce lo ha insegnato, uno su tutti, il centro del centro di molte rivoluzioni, Marcel Duchamp.

Estrarre uno scolabottiglie da un negozio e ricollocarlo in un museo.

Estrarre una lezione di danza classica dai luoghi solitamente deputati e agirla nello spazio condiviso.

E oplà, ecco che sul reale si crea nuovo pensiero.

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ph Nicola Cirocchi

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LUCA PAGAN _ MULTI NODE SHELL

FIDUCIA: è quella che occorre perché ogni accadimento mimetico abbia luogo.

«Sospensione dell’incredulità» la chiama, chi sa parlar bene.

Se non credo che quell’uomo vestito di pelo sia il Lupo, ma continuo a pensare che è un attore travestito, non avrò mai paura e il gioco teatrale non funzionerà.

Qui la fiducia è ribaltata: Pagan, come uno scienziato, si affida al mezzo, che abita e da cui si fa letteralmente abitare.

Come un TRICKSTER del terzo millennio ci imbroglia divertito, si stupisce del proprio stesso agire, gioca con i suoni e ce li consegna per quel che sono: duttile materia.

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IL GIARDINO DELLE ORE _ QUASI UNA SERATA. TRE ATTI UNICI DI ETHAN COEN

RELAZIONE: loro, il pubblico, prima dell’inizio lo accolgono e salutano, in platea: «Se avete delle domande…».

Durante lo spettacolo fanno interagire.

Poi lo insultano, il pubblico (come non pensare, a proposito di Storia del Teatro, agli Insulti al pubblico di Peter Handke).

E quello ci sta, al gioco.

E noi ci stiamo, a farci anche un po’ inveire contro.

Perché qui c’è RITMO, RITMO, RITMO.

E il ritmo è tutto, diceva il filosofo.

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ph Nicola Cirocchi

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E poi ci sono due concerti, di ERIC CHENEAUX in solo e poi di ROB MAZUREK e GABRIELE MITELLI.

Di questi non dico, perché di musica so poco o nulla.

E poi perché mi devo ancora riprendere dall’incanto, dalla malinconia e dalla dolcezza della voce di Cheneaux: che grande regalo.

 

ph Nicola Cirocchi

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GIULIO STASI _ UN CAFFÈ SOSPESO

ANDARE: penso ai Comici dell’Arte nominati poco sopra, al loro andare consustanziale al nutrirsi.

Penso a quello che non conosciamo e che generosamente ci nutre.

Penso alla POESIA del poco poco, del quasi niente, che Stasi vive e offre.

Altro di questo accadimento preziosissimo non dico, perché ho già detto QUI.

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SALVO LOMBARDO/CHIASMA _ SPORT

L’AGONE come origine greca del teatro.

La PERFORMANCE come possibilità di comunicare, fenomenologicamente, attraverso un fatto che significa in quanto tale.

Un salto è un salto.

Una capriola è una capriola.

Un tonfo è un tonfo.

Un cavallo è un cavallo (Jannis Kounellis docet).

Una rosa è una rosa è una rosa: questa, si sa, è Gertrude Stein. Ed è poesia.

Noi, sui due lati, a testimoniare questo algido teatro anatomico di biologie in azione.

La RIPETIZIONE come estenuazione del linguaggio. E uso questo termine, estenuazione, nel senso etimologico dell’assottigliare: i sensi, la percezione, i confini.

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Jannis Kounellis, Senza titolo, 1969

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MENOVENTI _ ENTERTAINMENT. UNA COMMEDIA IN CUI TUTTO È POSSIBILE

Tra PRESENTAZIONE e RAPPRESENTAZIONE: i cavalli in galleria di Kounellis di cui dicevo un attimo fa non sono rappresentati. Brutalmente ci sono: in carne, ossa, nitriti, effluvi.

Le due Figure qui stanno in bilico, tutto il tempo: ora PERSONE, ora PERSONAGGI.

E noi lì, a spazi (teatrali) ribaltati a «guardarci guardare», per dirla con Merleau-Ponty.

Con minimi, esattissimi segni rivoluzionar la prospettiva.

E, soprattutto, lasciar vuoti da colmare: come Mendeleev, quella volta.

Bisogna volerlo fare.

Bisogna saperlo fare.

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