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Cose che capitano: il sito della rivista Gagarin Orbite Culturali è stato pesantemente hackerato.
Per quasi un mese è stato offline.
Ora è ripartito.
Anche se disfunzionale rispetto alla velocità del web e all’iper-velocità del consumo social, questo non voluto stop ha permesso di far emergere un possibile fil rouge per connettere quanto ho avuto occasione di incontrare ad Ammutinamenti – Festival di Danza Urbana e d’Autore 2024 ormai un mese fa a Ravenna.
Lo individuo, azzardo, in un’attitudine fenomenologica, finanche zen -nel senso dell’accoglimento e dell’elementare ostensione di quel che c’è- di alcuni dispositivi coreografici presentati: come se affidarsi al reale fosse una possibile chiave per rendere plausibile un’arte che, com’è noto, nell’esatto istante in cui accade, letteralmente scompare.
Va da sé: non è scopo di queste poche righe esaurire la ricca varietà di percorsi tanto difformi rispetto a persistenza, estetiche, tecniche e poetiche.
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Ciò vale, in primis, per la prima creazione incontrata al Festival: un pezzo di storia che della propria storia fa motore e oggetto dell’opera.
Con un gruppetto di spettatrici e spettatori attraversiamo in silenzio diversi corridoi del MAR – Museo d’arte della città di Ravenna (alle pareti opere di Accardi e Griffa, Paladino e Cattelan, Boltanski, Castellani e Boetti – vertiginoso passaggio da Sindrome di Stendhal) e già pieni di vibrante bellezza incontriamo, in piedi davanti a un basso tavolino, Marigia Maggipinto.
Ci accoglie sorridente, fa indicare a chi lo desidera alcuni degli oggetti posti davanti a lei (fotografie, soprattutto, ma anche biglietti scritti a mano) e, a partire da quelli, racconta con pacata partecipazione e commossa ironia frammenti dei molti anni di lavoro con Pina Bausch. A metà e alla fine di questo breve, intimo accadimento, che sarebbe improprio definire spettacolo, dalle sue parole scaturisce la danza.
Prendono vita a pochi metri da noi, in una sorta di struggente intimità condivisa, i codici gestuali che han reso la coreografa tedesca celebre nel mondo occidentale contemporaneo.
Quante storie negli oggetti consumati, vien da pensare mentre troppo presto dobbiamo lasciare la sala: si vorrebbe restare lì per ore.
A indicare.
Ascoltare.
Guardare questo corpo-teatro, commovente nel senso letterale del far muovere insieme, a partire da quel che c’è. E da quel che c’è stato.
Appena uscito mi vien da ricordare, con sorridente malinconia, il finale di Un’altra donna di Woody Allen: «E mi domandai se un ricordo è qualche cosa che abbiamo, o che abbiamo perduto».
Arte che pone buone domande: questa, quella.
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Tutt’altra temperatura si sperimenta in un contesto affatto differente: dalle vellutate sale del Museo si è catapultati nella confusione del sabato pomeriggio al Centro Commerciale ESP.
Tra carrelli stracolmi e sporte della spesa si fa strada Rafael Candela.
Cuffiette e occhiali scuri, jeans e t-shirt lilla.
Una danzetta da niente, in apparenza, la sua: si avvicina dinoccolato ora a qualche avventore, ora al tavolino di un bar, ora a una fila di carrelli.
Un po’ alla volta, «con quella pacata indifferenza di chi conosce i polli della sua platea» si potrebbe dire evocando Ennio Flaiano, l’incedere apparentemente spensierato di Candela porta a crear connessioni, a rinnovar l’attenzione in quello che è solitamente solo un funzionale non-luogo: e così ci si ritrova a tracciare un filo tra lui e l’anziano signore dalla maglietta dello stesso colore che passa di fianco al negozio di scarpe, tra lui e le bimbe con cui con un minuscolo cenno delle dita si salutano, tra lui e la barista che di sottecchi lo sguarda perplessa.
L’effetto di questo suo vagabondare estetico piacerebbe a Yoko Ono: come non pensare ai molti dispositivi da lei inventati per incoraggiarci a percepire l’ordinario con rinnovata attenzione e così far fiorire mondane, minuscole epifanie?
In primis non opera d’arte: piuttosto opera dell’arte, questo minuscolo esercizio, questa opera apertissima (Umberto Eco docet) in cui è solo il contributo -in questo caso di sguardo e immaginifico- del fruitore che la completa, finanche la fa esistere.
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Da fuori a dentro: è un intimo esercizio zen, Breathing Room di Salvo Lombardo.
Esperienza che si fa luogo, che si lascia guardare. Attraversare.
Sideralmente distante dall’idea e dalla prassi spettacolare, fa del primario atto del nostro essere biologie in vita -il respiro- il luogo della possibile condivisione di una esperienza etimologicamente estetica, dunque sensorialmente conoscitiva.
A proposito di zen, dunque di accoglimento di un irripetibile qui e ora, il dispositivo ideato e guidato da Lombardo ospita di volta in volta una diversa persona. Durante il Festival ravennate si è trattato di Sissj Bassani del collettivo Parini Secondo (protagoniste peraltro dell’anteprima di Ammutinamenti 2024).
Vien da pensare a Yves Klein che, nell’aprile del 1958, camminando nella Galerie Iris Clert di Parigi crea il vuoto.
Al respiro come motore di ogni creatura, creazione, azione.
Al vuoto e al non fare come pre-condizione dell’accorgersi su cui da anni, a fondo, lavora artisticamente -tra coreografia, yoga e scrittura- una ravennate preziosa, Francesca Proia.
Brevi frasi incoraggianti di Lombardo puntellano, a mo’ di guida meditativa e filosofica -di una filosofia del piccolo, del poco poco, del quasi niente- questo accadimento in cui percepire è anche agire.
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Per contrappunto, è intessuta di colpi fragorosi generati su e da una iper-reattiva pedana sonorizzata la trama sonora dell’energica coreografia di Richard Mascherin, tra muscolari segmentazioni robotiche, slanci repentini, veloci guizzi.
E musica ritmata, battente.
E colpi di voce: a ricordarci che il suono è materia.
Che se anche non la sentiamo c’è.
È.
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«Oh mondo / soltanto adesso io ti guardo»: pare una dichiarazione d’intenti di matrice zen, ancora, il testo del successo di Jimmy Fontana che le donne protagonista di Athletes – Ravenna di Simona Bertozzi intonano mentre eseguono una composita partitura che distilla pratiche pallavolistiche (in altre città in cui il progetto è di volta in volta ricreato, incontra di volta in volta discipline sportive diverse) in una danza che è in primis festa del noi.
L’esistente a cui Bertozzi dà forma coreutica è innanzi tutto umano: cittadine, sportive e danzatrici si intrecciano come biologie in azione.
Senza primati dettati dalla téchne, un gruppo di dedite officianti multicolori intreccia vocalità (frutto della precisa pratica maieutica di Meike Clarelli) e cellule di movimento, in un continuum di opposti: dinamismo e requie, sincronie e sfasature, prendersi e lasciarsi.
Colpi di voce, parole-cose («Schiaccio!», «Lancio!»): come non pensare alla Teoria degli atti linguistici secondo la quale «dire qualcosa è anche fare qualcosa»?
Ricordi d’università a parte, questo Athletes si costituisce come tavola su cui sono ostesi, uno di fianco all’altro, gli elementi primari, costitutivi di quell’invenzione di natura e cultura che da alcuni millenni chiamiamo danza.
Alla fine giri di corsa a batter le mani al pubblico: è festa del noi, appunto.
Di quel che c’è.
Di quel che ci deve essere.
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Della Vetrina della Giovane Danza d’Autore dirò poco.
Non dirò, a proposito di dispositivi dell’esistente, di quanto essa sia parte di una trama nazionale et ultra di azioni precise e visionarie di sostegno a chi quest’arte, con diverse prospettive ed esperienze, professionalmente pratica o vorrebbe praticare.
Non dirò della molteplicità di prospettive che sono state offerte alla ricezione, in diversi luoghi di Ravenna, in tre fittissime giornate.
Nominerò solo due creazioni, perché paiono sintomatiche di un vivissimo brulichio in essere: quelle di Antonio Cataldo e di Alessandra Ruggeri.
Giovane barese trapiantato in Israele a studiar danza, il primo, ha proposto un solo di meno di dieci minuti.
Inclassificabile, magnetico.
Cuffia e gomitiere, ginocchiere e guanti, incarna il topos della dialettica tra protezione ed esposizione al pericolo, in una struttura che con carnosa ironia si costituisce di appoggi a terra e angoli, biologia e spigoli.
La musica della Nuova Compagnia di Canto Popolare affiora a dialogare con questa miniatura inspiegabile.
Imperscrutabile e viva: come una domanda.
Come quello che siamo.
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Vien da ricordare la Venere degli stracci di Michelangelo Pistoletto di fronte alla coreografia che Anya e Kyda Pozza eseguono (sa il cielo con quanto rispetto utilizziamo questo verbo, apparentemente sminuente) con esatta partecipazione.
Contrappongono alla sovrabbondanza di colori, alla morbidezza delle forme, all’intrico di mani che spuntano dal patchwork visivo un’esatta partitura di inarcamenti e sostegni, camminate e sospensioni.
L’esistente, quel che c’è e su cui quest’arte ineffabile si poggia, qui, è il corpo.
Appoggiarsi all’altra persona, per un momento.
Comporre forme dinamiche in uno spazio.
Trovare bellezza ovunque.
Pure negli stracci.
C’è: basta saperla vedere.
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