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Dal 24 al 30 settembre al Teatro degli Atti di Rimini avrà luogo la XXII edizione del Festival Voci dell’Anima, diretto da Maurizio Argan e Alessandro Carli.
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Il titolo-tema dell’edizione 2024 è Gli Altri. Le Voci nel nome del vostro Festival sono declinate al plurale. Nella potenzialmente infinita varietà di scelte possibili, quali principi generali regolano l’individuazione degli artisti e degli spettacoli presenti al Festival?
Il titolo di quest’anno sintetizza, in due parole, come ci muoviamo nella scelta degli spettacoli e degli artisti. “Gli altri” sono quelli che hanno poetiche profonde, cristalline ma che circuitano poco per logiche politiche, per equilibri che molto spesso – non sempre ma molto spesso – stanno alla base dei cartelloni.
Non guardiamo il nome ma la storia, se c’è credibilità – parlare di sovrapposizione tra vita e teatro è eccessivo – per l’artista e il suo lavoro, se quello spettacolo è nelle corde di chi lo mette in scena o se è invece finzione. Naturalmente poi c’è anche una parte emotiva ed emozionale, molto importante.
“Gli altri” sono quindi loro, siamo noi.
Si potrà venire a teatro spendendo solo 1 euro. A favore di chi è estraneo ai meccanismi del sistema teatrale: come si sostiene il Festival, proponendo biglietti di ingresso così economici?
Il biglietto a costo un euro è applicato nelle quattro serate del concorso vero e proprio, è una formula pensata lo scorso anno per fare in modo che molte più persone, specie giovani che probabilmente non possono permettersi di pagare 15/20 euro ogni sera, abbiano la possibilità di avvicinarsi al teatro. In più c’è un contenitore mediante il quale le persone, in piena libertà, possono dare un sostegno al Festival. Il pubblico, almeno lo scorso anno, ha risposto con estrema generosità.
Il Festival, inoltre, si sostiene con il contributo della Regione Emilia-Romagna, il Comune di Rimini ci concede il Teatro degli Atti e il personale di servizio, sponsor privati ci sostengono da molti anni, oltre naturalmente al lavoro quasi di volontariato di tutti noi dello staff.
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Oltre agli spettacoli in programma, vi sarà una parallela programmazione poetica intitolata Animali da Palco. Ce la racconti?
Spesso, prima dell’inizio di uno spettacolo, ci sono momenti morti, di attesa. Diversi anni fa Teresio Troll ha pensato a una finestra sulla poesia, a più voci: una vetrina di liriche e musica con diversi ospiti.
Un progetto che nel tempo si è evoluto, com’è giusto che sia: è stato modulato e rimodulato in base ai testi che venivano e vengono letti, agli artisti che hanno condiviso con lui il microfono. Una sorta di aperitivo letterario, teatrale. .
Più in generale: qual è la differenza, dal tuo punto di vista, tra poesia e teatro, giacché c’è chi afferma che il teatro o è di poesia o -semplicemente e radicalmente- non è teatro?
Il teatro può essere poesia. E la poesia può essere teatro. Non sempre, ma ci sono casi particolarmente significativi, anche nel territorio: penso al meraviglioso lavoro che Mariangela Gualtieri e Cesare Ronconi portano avanti da anni come Teatro Valdoca.
Il teatro è poesia quando racconta ed emoziona, quando si rivolge a un pubblico, quando arriva in platea.
Accade spesso ma non sempre.
Esiste il teatro di poesia e quello visivo, quello di narrazione, quello civile, quello sociale, quello comico. Parlerei di più teatri: in fin dei conti, si prova sempre a mettere in scena la vita.
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L’apertura dell’edizione 2024 è affidata a un Maestro delle scene italiane, Marco Baliani, che presenterà il suo capolavoro Kohlhaas, spettacolo che ha di fatto introdotto il teatro di narrazione nel nostro Paese. Perché per voi è importante avvicinare il pubblico di oggi a pezzi di Storia del Teatro? Dal vostro punto di osservazione e di azione percepite una mancanza di conoscenza, in particolare nelle giovani generazioni?
In parte sì.
Una mancanza di conoscenza legata alla “generazionalità”, intesa come tempo e come età. Ma è un fattore più che normale: le nuove generazioni non hanno potuto vivere di persona l’incontro con artisti e attori che hanno rivoluzionato il secondo Novecento.
Penso al 1967, l’anno della consacrazione ufficiale del fenomeno dell’avanguardia teatrale in Italia, soprattutto per un convegno che fu tenuto ad Ivrea, in provincia di Torino, dal 9 al 12 giugno e che si intitolava Convegno per un Nuovo Teatro.
Il convegno di Ivrea resta un fatto molto importante, non solo per l’indubbio rilievo di alcune formazioni – l’Odin Teatret diretto da Eugenio Barba, la coppia formata da Leo de Berardinis e Perla Peragallo – o per gli scontri che videro l’attacco a Marinetti da parte di Carmelo Bene.
Ivrea fu, e resta ancora oggi, importante perché costituì una prova tangente e inequivocabile della spaccatura profonda che si era ormai prodotta nella scena italiana.
Da quell’ulcera teatrale nacquero poi i tre movimenti che scandirono gli anni a venire: avanguardia, Teatro Immagine e post avanguardia.
Un humus fertilissimo che oggi, dopo mezzo secolo, è diventato inevitabilmente Storia. E ci fa capire che quello che avviene ancora oggi, che viene rappresentato oggi, parte e fa parte del passato.
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A proposito di conoscenza, storia e generazioni: al Festival verrà presentato, sia in serale per tutto il pubblico che in matinée con e per le scuole del territorio, il premiato spettacolo in cui Sara Bevilacqua interpreta la moglie di Paolo Borsellino. Seguirà anche un incontro con la figlia del giudice, Fiammetta. Il teatro può davvero far maturare la coscienza civile, secondo te? Detto altrimenti, e allargando: a tuo avviso l’arte può mutare il reale o serve soprattutto a mettere insieme e consolare le persone che già sono sensibili rispetto a questioni affini?
Il teatro è, o dovrebbe essere, sempre un’azione politica.
Noi, come Festival, la viviamo cosi da 22 anni: per non aver voluto entrare per forza in un sistema politico teatrale, abbiamo sentito sulla nostra pelle cosa significhi essere liberi.
Alla tua domanda, nello specifico, rispondo con alcune parole che ho conservato (di cui non ricordo purtroppo l’autore): «Il teatro essendo un atto pubblico è già di per sé Teatro Civile».
Non penso però basti.
Vale la pena di interrogarsi su cosa significhi oggi portare sulle scene spettacoli su certi temi: sulle stragi di Stato, come in questo caso, sulle connivenze fra mafia e politica.
In un momento in cui lo svuotamento della politica ha un effetto disgregante sulla collettività, nella quale il singolo individuo è diventato entità isolata, che ha perso il legame con la memoria e con la Storia, c’è da chiedersi se il teatro possa essere uno strumento valido per suscitare un dibattito sulle problematiche della società.
Per me, per noi, il teatro civile, il teatro politico può farlo.
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Nei materiali di presentazione del Festival citate Pina Bausch. Nel programma si trova anche molta danza, arte che -fatte salve le declinazioni narrative, settecentesche et ultra– è essenzialmente scrittura di pure forme in movimento. In che modo questa componente della programmazione, meno intrisa di contenuti referenziali, dialoga con gli altri spettacoli, come ad esempio quello appena citato dedicato al giudice Borsellino?
La danza è teatro: è scrittura di pure forme di movimento ma è pur sempre scrittura.
Una scrittura alta e internazionale: non ha il limite del linguaggio verbale, come invece capita nel teatro di parola, in cui si è compresi da chi conosce la lingua.
La danza dialoga con il teatro in quanto è scrittura trasversale, il teatro dialoga quasi sempre con la danza – o meglio, con il movimento – perché l’azione appartiene alla grammatica della scena.
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Luigi D’Elia presenterà una sua recente creazione, La luna e i falò, dal celebre romanzo di Cesare Pavese. Il sottotitolo dello spettacolo dell’artista pugliese è Time never dies. Per concludere (e allargare): che cosa dell’arte effimera del teatro e della danza non muore, secondo te?
L’anima.
La voce dell’anima, ad essere più precisi.
Da quando esiste il teatro – più o meno 2.500 anni – ogni giorno accade, in qualche angolo di mondo, il rito pagano della scena, della rappresentazione, dell’attore e dell’artista che si esibisce.
Del resto, la parola teatro è l’anagramma della parola attore: finché non muore – e non credo che possa accadere – e non muore il pubblico, ci sarà sempre un luogo dello sguardo da vivere.
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