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Non si può raccontare, Ra.Me. Festival, senza nominare le mille pale a vento tutt’attorno, nel paesaggio largo, che danno all’avventura di Teatro Ebasko un sapore donchisciottesco.
Non si può raccontare, Ra.Me. Festival, senza nominare il luogo in cui accade: Melissa, borgo sperduto in provincia di Crotone, in Calabria. Salite e discese, poca acqua e pietra dappertutto: nelle strade, nelle facce e nella lingua dei pochissimi abitanti rimasti. «Melissa è paese di vecchi» dice Salvatore, giovane studioso di teologia e filosofia tornato lì dal nord Europa a trovare i parenti, come molti abitanti emigrati fanno, d’estate, nei giorni in cui si festeggia uno dei patroni del paese.
Non si può raccontare, Ra.Me. Festival, senza nominare le molte ore per arrivarci, da ovunque tu parta. La gran fatica che dev’essere tutto, lì. Ma anche la sorridente fiducia con cui un giovane e visionario gruppo teatrale fa accadere l’impensabile.
Non si può raccontare, Ra.Me. Festival, senza nominare il bar di Ciccio, nella minuscola piazzetta. La Brasilena fresca, le bottigliette vuote di Peroni, dappertutto, le persone che lì la sera ridono e tiran tardi.
E poi non si può raccontare, perché non sta bene, ma almeno lo si può e deve nominare, il motivo per cui son capitato alla quinta edizione di Ra.Me. Festival, a fine luglio 2024: ho accolto l’invito a co-curare e moderare un convegno (internazionale, si potrebbe aggiungere con un po’ di enfasi) realizzato in collaborazione di Theatron 2.0 in cui con artistə, studiosə e giovani -attraverso dialoghi e dimostrazioni di lavoro- ci siamo interrogatə su come l’intreccio con l’Altro da sé aiuti a dare forma comunicativa, dunque linguistica, ai propri ii, come direbbe Edoardo Sanguineti. «Fa’ che, cerca di, tendi a, dimmi tutto»: con le parole di un altro gran poeta, Andrea Zanzotto, sintetizzo la spinta di quelle ore fortunate, accadute in una «festa nel deserto», come l’ha definita il Direttore Artistico Simone Bevilacqua in apertura di quel pomeriggio prezioso. Su questo altro non aggiungo, se non la gratitudine per la gran cura, di tutto e di tuttə.
Non si possono raccontare, le creazioni che ho visto a Ra.Me. Festival. Meglio: non le si possono esaurire. Ma almeno qualcosa, almeno di qualcuna, la si può nominare.
Le due suore anziane, biancovestite e in scarpe da ginnastica, che attente e sorridenti han partecipato a tutti gli appuntamenti del Festival.
L’omaggio mozartiano (ma anche kantoriano, bauschiano e barocco) di Teatro a Canone all’antica arte della scena Composizione di opposti a crear meraviglia: bianco e nero e colore, animato e inanimato, sovrabbondanza e stilizzazione. E, sul finale, un piccolo e memorabile coup de théâtre, a lanciare e lasciare enigmi.
L’ibridazione di codici e millenarie tradizioni nella Circe di Teatro Ebasko, a testimoniare che il teatro è anche, o meglio è in primis, rigoroso allenamento teso -per dirla michelangiolescamente- a «liberare la forma».
Il docufilm che Chiara Crupi ha realizzato su La vita cronica di Eugenio Barba / Odin Teatret, numi tutelari in differita di Ra.Me. Festival. Lo smisurato lavorio con cui ha restituito quell’allegria di naufraghi, quel millimetrico montaggio di e per variazioni nel consegnare pezzi di mondo (o «fatti», per dirla con Deleuze) alla ricezione di chi assiste.
I mille ringraziamenti dell’attrice di Piccoli Idilli, a ritmo di percussioni, nel prologo del loro spettacolo. Alle persone del Festival ma anche al barista dell’aeroporto, alla sorella che le ha telefonato. A stabilire un campo largo, a ricordarci che ogni avventura del noi è faccenda del qui e dell’altrove. Che ogni peripezia dell’arte è questione (anche) di ciò che non è dato percepire.
Le creazioni del Teatro dell’Albero, in merito alle quali ho dialogato con Mario Barzaghi, che con Rosalba Genovese e Maria Rita Simone dà vita a questo meticoloso ensemble indipendente.
Il Teatro dell’Albero, a Ra.Me. Festival, ha presentato lo spettacolo in divenire Mettimi come sigillo sul tuo cuore e, l’ultima sera, l’esperienza itinerante Pietre care realizzata insieme a un gruppo di donne del coro della chiesa del paese.
Iniziamo dal fondo, Mario. Che cosa ti ha sorpreso, artisticamente, nell’incontro con le donne di Melissa?
La cosa che ha colpito me e tutto il Teatro dell’Albero è stata la loro adesione entusiasta. Una disponibilità dettata dal fatto che abbiamo presentato un progetto legato alle radici della comunità di Melissa e a tematiche a loro care, quali lo spopolamento e l’abbandono.
Come avete lavorato? Quali principi hanno regolato la creazione e la trasmissione di ciò che è poi stato offerto alle persone presenti al Festival?
Ho partecipato tutte e cinque le edizioni del Festival Ra.Me. Nel corso degli anni ho percorso in lungo e in largo il borgo abbandonato e ho percepito tutta l’energia che quelle pietre emanavano, che sentivo forte come una preghiera e che mi ha commosso. Stato d’animo, questo, condiviso anche dalle mie compagne di lavoro del Teatro dell’Albero. Questo nostro sentire, con il sostegno del Teatro Ebasko, ha preso forma in termini di progetto. Abbiamo realizzato tre residenze a Melissa e ci siamo posti degli obiettivi: raccogliere racconti e ricordi, rielaborarli in forma poetica e trasformarli in canto, lavorare con le donne sull’apprendimento dei canti all’unisono e su semplici azioni, presentare il lavoro agli spettatori. Passione, disciplina e dedizione hanno animato il nostro lavoro sia durante il processo creativo, sia nel momento di restituzione al pubblico.
In Pietre care cantate diversi elementi, anche bassi, del luogo. Che tipo di ascolto ha portato alla costruzione di quei testi?
Noi abbiamo richiesto una partecipazione attiva al coro delle donne, incentrata sulla condivisione dei loro ricordi legati a Melissa. Abbiamo percorso insieme le vie del piccolo borgo e raccolto i racconti legati a quei luoghi. Alcuni di questi racconti sono stati trasformati in testo poetico da Maria Rita Simone, drammaturga del Teatro dell’Albero, poi da me in canti.
Il vostro lavoro si caratterizza per l’assoluto rigore e la lunghissima, meticolosa preparazione. In questo incontro con le donne della comunità, al contrario, i tempi sono stati inevitabilmente molto ridotti. Come avete gestito questa peculiarità?
Le tre residenze, di una settimana ciascuna, hanno reso possibile l’organizzazione di tutto il lavoro. Abbiamo assegnato dei compiti alle donne del coro, questo ha permesso di ottimizzare i tempi. Bisogna dire, inoltre, che avevamo iniziato la nostra collaborazione con il coro delle donne nel 2023. In quell’occasione abbiamo lavorato insieme a loro ai canti che hanno accompagnato la messa comunitaria a conclusione del Festival.
Al Festival avete anche presentato uno spettacolo in fieri, Mettimi come un sigillo sul tuo cuore, in cui la grande tradizione letteraria cristiana si intreccia alla stilizzazione gestuale del teatrodanza indiano. Ci racconti come è nato e come si svilupperà questo intreccio?
Siamo partiti da una relazione tra Medio Oriente e Occidente che è già presente all’interno della Sacre Scritture. Tutto il lavoro che abbiamo sviluppato è connesso alla poetica del Teatro dell’Albero. La nostra Compagnia, sin dalla sua fondazione, si è occupata dell’arte dell’attore tra Oriente e Occidente. Sviluppo dell’intreccio? Il lavoro è una miniatura, da affinare con una pratica paziente.
Mettimi come un sigillo sul tuo cuore, azzardo, evoca senza didascalie né prediche la concreta e poetica possibilità di un incontro transculturale, focalizzandosi su ciò che precede le peculiarità e le differenze. È così?
Utilizziamo parametri compositivi che hanno a che fare con la coreografia, dunque con lo spazio, il tempo e il ritmo. Usiamo le mudra, non in modo didascalico, per tradurre il testo poetico, ma come energia danzante. Nella nostra creazione le mudra danzano più in rapporto al significante che al significato. Questa fusione basa il suo senso sul canto, se non ci fosse il canto non potremmo immaginare contaminazione tra Oriente e Occidente. È il canto che riesce a tenere assieme le due culture.
Un aspetto che mi ha colpito, del vostro lavoro in Mettimi come un sigillo sul tuo cuore, è l’equilibrio tra le tre figure, laddove ci si potrebbe aspettare un uomo predominante con due donne a far da serve di scena. Come lo avete costruito?
Il numero tre è importante. Il Teatro dell’Albero è formato da due attrici e un attore. In Mettimi come sigillo sul tuo cuore abbiamo immaginato come una miniatura che incornicia lo spettacolo. Le figure che si stagliano sullo sfondo riescono a far emergere i dettagli. Il tutto è strutturato all’interno di un’armoniosa geometria. L’uomo è un punto del triangolo, al pari delle donne, non è il protagonista dello spettacolo.
La tua lunghissima frequentazione con i comportamenti scenici della tradizione indiana continua. Ci puoi raccontare, oggi, qual è il tuo rapporto con quel patrimonio?
Il mio rapporto con il Kathakali mi costringe a ripensare quotidianamente a quello che so fare e a quello che non so fare. Il mio Maestro, Kalamandalam Neeraj, ha trentaquattro anni, io, suo allievo, ne ho settanta. Mi dice cosa non va bene e cosa posso fare per migliorarmi, come posso fare meglio, mi fa capire quanto in profondità si possa andare nell’apprendimento di una così complessa disciplina artistica. Inoltre, il rapporto diretto col Maestro mi permette di elaborare la parte etica del mio lavoro, andare in India diventa un’esperienza non solo in rapporto alle cose da apprendere ma soprattutto alle cose che devi affrontare, per esempio: il Gurukulam system, il rapporto diretto col Guru che mette a durissima prova l’allievo da un punto di vista psicofisico.
A Melissa avete anche offerto un frammento di un vostro lavoro in divenire sul Cantico delle creature di Francesco d’Assisi. Come ne immaginate l’evoluzione?
Nel 2025 il Teatro dell’Albero compirà venticinque anni di attività e avremmo piacere di condividere il nostro lavoro con gli amici che ci accoglieranno. In questo senso, ci sarà forse la possibilità di collaborare con Valerio Apice (Isola di Confine) alla realizzazione di un progetto relativo alla figura di San Francesco.
Infine: puoi suggerire una visione, un ascolto e una lettura che hanno nutrito il tuo percorso e che ti senti di rilanciare a chi leggerà la nostra conversazione?
Visione: come visione misteriosa, le pietà di Michelangelo, la prima e la Pietà Rondanini.
Ascolto: le musiche di Gurdjieff.
Lettura: le interviste di Krishnamurti.
Arrivato in fondo a questo fin troppo lungo articolo, penso a una delle Città invisibili immaginate e raccontate da Italo Calvino, Argia, quella che «invece d’aria ha terra».
Muovercisi, va da sé, è difficilissimo: occorre scavar cunicoli.
Da fuori non si vede nulla.
È una specie di città sotterranea, letteralmente invisibile.
Occorre fiducia, per credere che esista, che ci sia vita là sotto.
Occorre fiducia per far accadere qualcosa, in un posto così.
«Di notte, accostando l’orecchio al suolo» scrive Calvino «alle volte si sente una porta che sbatte».
A me, per dire, a Melissa è capitato.
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