Sono una donna, dunque sono. Conversazione con Francesca Fini

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Francesca Fini, Five actions with red gloves, 2013

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Lunedì 2 settembre negli spazi della Fondazione Dino Zoli di Forlì inaugura BODY (S)CUL(P)TURE, prima mostra personale di Francesca Fini in città, proposta come prologo di Ibrida – Festival delle Arti Intermediali, in programma a Forlì dal 20 al 22 settembre.

Donne valorose è una rubrica nata per affacciarsi ai mondi del femminile e dei femminismi. Quali tra le opere presenti a Forlì affrontano in maniera più esplicita queste questioni?

Le mie opere, ovviamente, parlano di me, sono un’espressione della sintesi che a livello inconscio io elaboro del mio vissuto, delle mie esperienze, delle mie quotidiane avventure nel mondo. Quindi il mio lavoro non può che riflettere il mio essere donna, in questo tempo e in questo luogo. Ci sono poi opere dove io, da performer, metto in scena questo mio mondo interiore attraverso il mio corpo. Il linguaggio del corpo è profondamente femminile, nel suo essere così diretto, privo di filtri e universale. Ma non c’è alcuno sforzo, alcun desiderio di lasciare messaggi nella bottiglia, alcuna ideologia in questo processo. Si tratta di un fenomeno perfettamente naturale. Sono una donna, dunque sono.

 

Francesca Fini, Binary Blues, video art, 2023

 

In generale: qual è, secondo te, il rapporto appropriato tra arte e tematiche civili o sociali rispetto alle polarità, sempre mobili, «documentazione del reale» e «costruzione di una realtà altra»?

L’arte è prima di tutto una forma espressiva, è il modo in cui la nostra specie comunica, o cerca di elaborare quel groviglio di passioni, frammenti di sogni, incubi, speranze, dolore e gioia, che scivolano dolcemente nel frullatore di quella parte del cervello che non conosce la differenza tra passato e futuro. È così dalla notte dei tempi: il qui e ora di un pensiero rimuginato e rigurgitato attraverso i secoli di un eterno presente. Puoi chiamare tutto questo una ‘realtà altra’ se vuoi, e in questa realtà ci aggiriamo in un deserto onirico e raccontiamo noi stessi ai fantasmi che incontriamo sul nostro cammino. La documentazione del reale è cosa altra che con l’arte non ha nulla a che fare, e bada bene che io non attribuisco alla parola arte alcuna aurea mitologica, alcun peso specifico particolare. Si tratta di una forma espressiva, ma ha le sue peculiarità che la distinguono dalle altre. Tra queste peculiarità, la totale indifferenza nei confronti di quello che pensa il mondo. L’artista agisce per se stesso e, spesso, solo in compagnia di se stesso, è una creatura davanti ad uno specchio scuro, che poi rivolge verso gli altri, perché finalmente si vedano. L’arte proietta riflessi e li disintegra, la documentazione li cattura e li ricompone. Entrambe le forme espressive hanno sempre avuto un valore inestimabile nella storia umana.

Nello specifico: può un’opera far cambiare idea a qualcuno o serve piuttosto a far riconoscere in un noi chi già la pensa in maniera affine?

L’arte secondo me può far cambiare idea, ma solo su noi stessi, sull’idea che abbiamo di noi stessi. Non può cambiare il mondo, e questo secondo me non è il suo contributo e il suo scopo ultimo, perché non offre mai soluzioni.

 

Francesca Fini, Blind, live media performance, 2011

 

In un’intervista ti definisci «artista intermediale». A favore di chi è meno addentro ai mondi e alle parole dell’arte contemporanea puoi spiegare, con qualche esempio, cosa intendi?

Si tratta di un termine che ha una sua storia molto importante. Io mi definisco artista intermediale perché mi muovo attraverso diversi linguaggi che sono a volte anche inconciliabili tra loro, senza mai raggiungere una sintesi vera, una formula alchemica. Esploro la pittura, la performance, il video, l’animazione 3d, il teatro, raccogliendo reperti e suggestioni lungo la strada, e lasciando sempre il lavoro incompiuto. Ho un arsenale di strumenti a mia disposizione, elaborati nel corso del tempo lavorando con i più diversi linguaggi, strumenti che attivo a seconda di quello che voglio esprimere, per poi passare ad altro. Sono una viaggiatrice dei linguaggi come vasi comunicanti. La mia amica Oriana Persico mi ha definita una hacker del linguaggio. Quindi giustamente ‘Inter’ (tra) e non ‘Multi’.

Il curatore della mostra alla Fondazione Dino Zoli di Forlì, Bruno Di Marino, ragiona sul tuo universo di significanti e significati utilizzando il neologismo «phygital». In che maniera il tuo essere un’artista donna nutre questa attitudine ibridante?

Secondo me l’espressione phygital é semplicemente il riflesso di quello che tutti viviamo. Oramai nessuna esperienza umana, persino la guerra, come abbiamo potuto appurare, é esclusivamente un fatto del mondo fisico. E nessun prodotto digitale nasce dal digitale. Se risali la catena a ritroso trovi sempre un cervello umano, nascosto dietro lo specchio deformante come il Mago di Oz. Non si tratta di ibridazione, a mio avviso, ma di una stratificazione continua di eventi che mantengono la loro natura profonda, di azioni e reazioni che si susseguono, aderendo e integrandosi: una serie di processi cognitivi e produttivi in sfere diverse dello scibile che producono qualcosa che il mondo ancora non conosceva. Ogni istante della vita di tutti, oggi, potrebbe essere definito phygital. E sono molto contenta che Bruno abbia scelto questa definizione così pop, perché io racconto solo la mia vita e il mio mondo, senza troppi sforzi e troppe pretese. In questo penso di esprimere il mio lato più autenticamente femminile.

 

Francesca Fini, Typo #3, performance, 2016

 

Hai preso parte alla prima edizione della Settimana Internazionale della Performance a Venezia, nel 2012. Tra gli altri venivano presentate opere di Jan Fabre, Yoko Ono e Hermann Nitsch. Qual è il tuo ricordo più vivo, di quella esperienza?

Questo festival è stato un’esperienza unica, anche solo per come è stato organizzato, con le stanze di questo meraviglioso palazzo veneziano animate e ‘abitate’ per tutto il giorno dagli artisti, in una sorta di autogestione degli spazi. Con il pubblico che passeggiava da una stanza all’altra e in ognuna scopriva un mondo diverso, improvvisato, non programmato, che cresceva, si stratificava, si riempiva di senso giorno dopo giorno. Una sorta di happening collettivo corale, viscerale, che non ho mai visto in Italia. Secondo me quello che fa la differenza in un festival è proprio questa capacità di creare un flusso imprevedibile di conoscenza, attraverso la gestione intelligente degli artisti che partecipano. Troppo spesso invece i festival sono ossessionati dalla programmazione, dalle scalette, dall’organizzazione.

Yoko Ono -volgarmente ahinoi spesso relegata al ruolo di «moglie antipatica di John Lennon», laddove è stata un’artista gigantesca, Fluxus et ultra– è tra i riferimenti che hanno nutrito il tuo lavoro e il tuo immaginario?

Non direi. La amo ma ho riferimenti diversi, mi sento più Loïe Fuller o Carolee Schneemann.

 

Francesca Fini, Typo #3, performance, 2016

 

A proposito di nutrimenti, infine: puoi suggerirci alcune letture e una visione sulle questioni del femminile e dei femminismi?

Suggerisco di leggere tutti i libri di Chimamanda Ngozi Adichie, che io adoro, e di dare una rispolverata estiva a quelli di Donna Haraway, in particolare Staying with the Trouble: Making Kin in the Chthulucene, del 2016. Poi consiglio di cercare il meraviglioso documentario Sisters With Transistors di Lisa Rovner, che racconta la storia delle donne pioniere della musica elettronica.

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