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Moltitudini di nome e di fatto, quelle annunciate da Lucia Franchi e Luca Ricci (citando Walt Whitman) come titolo di Kilowatt Festival 2024 e manifestatesi in una ridda di creazioni e linguaggi affatto diversi per concezione, trattamento ed efficacia.
Per parte nostra, abbiamo abitato Sansepolcro per tre giorni, dal 15 al 17 luglio.
Pescando tra ciò che abbiamo potuto vedere, alcune brevissime note di sorvolo e un affondo dialogante.
Senza tentare di individuare un fil rouge -come suggerito dalla Direzione Artistica- e nutrendo i nostri molti ii (per dirla con un altro gran poeta, Edoardo Sanguineti), abbiamo visitato gli affascinanti Orti urbani (teatro di una veemente esperienza coreutico-sensoriale interattiva a cura di Giacomo Calli e Lucrezia C. Gabrieli) e partecipato a un’asta di Lyto Triantafyllidou in cui l’(auto)biografia è diventata ritmica parola drammaturgica, attraversato le stanze di una fascinosa casa delle arti -la CasermArcheologica- in cui un sapiente coreografo, Marco Valerio Amico, ha osteso con generosa esattezza i propri strumenti nel segno dell’evidenza e abbiamo osservato un noto ensemble di danza contemporanea, mk, articolare un dispositivo di parole e corpi, elenchi e citazioni, entrate e uscite, sincroni e assoli, forme e informe, simboli e indizi: su tutto la consumata ironia di un premiato coreografo «che conosce i polli della sua platea», si potrebbe dire con Ennio Flaiano.
Ci siamo anche imbattuti, dentro a una roulotte, in uno spettacolo minuscolo e commovente della Compagnia Samovar -per noi la vera, grande sorpresa di questa edizione del Festival- e abbiamo incontrato una elementare rilettura beckettiana di Nerval Teatro (di queste due creazioni abbiamo scritto su Hystrio. Trimestrale di Teatro e spettacolo, nel numero che uscirà a ottobre).
L’affondo dialogante lo riserviamo a un’artista che molto ammiriamo, Francesca Sarteanesi, che in un chiostro colmo di pubblico entusiasta ha presentato il suo recente Nikita.
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Abbiamo chiesto a Francesca di raccontarci un po’ di quel che c’è attorno a ciò che è stato dato a vedere.
Come è organizzata la collaborazione drammaturgica con Tommaso Cheli? Chi fa cosa? Il testo è completamente fissato prima delle prove o viene modificato man mano che lo spettacolo cresce?
Esattamente come nello spettacolo precedente, anche per questo lavoro Tommaso si occupa di esaudire i miei sogni. Improvvisa e scrive. Io mi limito a dare suggestioni. Solitamente decidiamo dove siamo e chi sono i protagonisti della scena. Un confronto continuo. Quello che ci lega e che sappiamo perfettamente anche senza dovercelo ripetere è che dobbiamo sempre stare lontani dal centro del discorso. Operazione che prevede un’attenzione smisurata verso ogni parola scelta. Il testo è solo in parte fissato, continua a crescere e a morire durante le prove. Questo perché è il frutto di un numero elevato di improvvisazioni. È sicuramente la parte del lavoro più stimolante e divertente perché ci sono pochi limiti ai quali prestare attenzione e ogni giudizio è sospeso. In quel momento la creatività corre da sola a briglia sciolta giungendo talvolta anche a esiti surreali. Poi arriva il momento di imbrigliar il cavallo e riuscire a domarlo. Questa seconda fase è legata prevalentemente alla sbobinatura e alla selezione del materiale raccolto. È un momento più riflessivo, essenziale per comprendere i punti significativi del testo. Gli strumenti per questa fase sono forbici e lima. Segue poi l’attività di montaggio, faticosa e apparentemente senza fine, durante la quale le tessere del mosaico devono trovare una loro coerenza. Dopo svariati tentativi, si giunge a un incastro soddisfacente ma sempre soggetto a modifiche, più o meno piccole.
Quali principi hanno regolato, in fase di creazione, la relazione scenica tra te e Alessia Spinelli? E quali sorprese ha portato, questo incontro?
Il lavoro con Alessia Spinelli era più o meno tutto chiaro in fase di scrittura e anche di regia. Avevo in testa chi fosse il suo personaggio ed entro quali limiti dovesse stare. Soltanto in prova e con il testo concluso abbiamo potuto iniziare a giocare insieme. La sorpresa per me è stata quella di lasciami andare. Io rigida spesso, in questo lavoro ho capito che era importante che imparassi immediatamente a cambiare modalità. A osservare le sue reazioni e prendere confidenza con il suo sguardo. Tenere a bada il testo, ma lasciarne respiri drammaturgici da immaginare insieme facendo.
Rispetto al tuo precedente assolo Sergio, qui la Figura che incarni sembra essere più amaramente, ferocemente ironica. È così, dal tuo punto di vista?
Non so. L’ironia è una brutta bestia da gestire. Tentiamo di domarla e renderla potente. Con l’ironia possiamo commettere tanti errori, ci piace l’idea di godercela stando attenti a non fare brutti scivoloni catastrofici. Corriamo il rischio di sbagliare maneggiando questa parola, ma è anche parte del nostro DNA. Tommaso ne conosce i limiti e io pure. Questo ci permette di giocare con l’ironia senza averne troppa paura.
Quali specifiche attenzioni interpretative richiede, il tuo personaggio?
Prima di tutto un lungo lavorio di memoria. Mentre studio il testo cerco già di capire quali saranno le modalità per recitarlo. Durante le improvvisazioni con Tommaso, inizio fin da subito a immaginarmi la grana che dovrà affrontare il mio personaggio. Tenere a bada la recitazione, che vuol dire stare attenti a non recitare, ma saper gestire nel migliore dei modi l’interpretazione. Questo è un capitolo molto lungo e difficile da spiegare. È una fase quasi nauseante e ripetitiva, che richiede ore e ore di prove. E, infine, fissare paletti precisissimi da non oltrepassare.
Quali Figure hanno nutrito il tuo immaginario e il tuo lavoro, in Nikita?
Le mie nonne. Le vicine di case delle mie nonne. Le vicine di casa delle vicine di casa delle mie nonne. Quella di fronte a casa mia e i parenti di quella di fronte a casa mia. La giornalaia e i clienti della giornalaia. Tutti i bar di tutto il mondo. Tutte le file di persone. Tutti i viaggi in treno. Tutti i panini della notte. Tanti film. Qualche spettacolo. Tanti paesaggi. Moltissime panchine. I vuoti assoluti. Le biografie noiose. Certe canzoni.
Che cosa questo spettacolo -o qualsiasi spettacolo- non può fino in fondo manifestare, nonostante la dedizione e la sincerità di chi lo crea?
Credo che ogni spettacolo abbia una parte manifestabile e una segreta. Quello che vediamo in scena è il risultato dello scontro frontale tra le due parti. Solitamente è uno scontro senza morti, ma spesso con diversi feriti. Alcuni feriti li troviamo seduti tra il pubblico, altri sul palco.
Sei madre di un bimbo piccolo. Che cosa, poeticamente e concretamente, l’esperienza della maternità ha aggiunto, a questo tuo nuovo spettacolo?
La maternità mi ha fatto conoscere una nuova parola: tempo. Già la conoscevo un po’, ma da quando sono diventata mamma ne comprendo meglio il senso. Il lavoro da gestire insieme a un neonato che piange, ride, strilla, cade e gioca cambia volto. Sei costretto a una nuova gestione del tempo. Prima potevo stare ore e ore, per giorni, seduta a un tavolino a ragionare, sviscerare, cercare soluzioni, scrivere, provare e riprovare. Adesso no. Inizialmente ho pensato di non farcela. Ma poi non ho ceduto, ho lasciato che questo cambiamento totale avesse spazio. Ho dato fiducia all’istinto. L’ho seguito di più. L’istinto non ha tempo. L’istinto è un attimo. Lo senti, vibra nella pancia e basta. Va solo seguito.
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