Una grande fiducia nel teatro. Nota sul Festival Opera Prima 2024

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«Una grande fiducia nel teatro»: per questo ha ringraziato una spettatrice durante uno degli incontri mattutini del Festival Opera Prima, appassionatamente guidati dal coordinatore artistico Massimo Munaro allo scopo di connettere modi e mondi della comunità temporanea che si è agglutinata attorno alla proposizione che da trent’anni (e venti edizioni) il Teatro del Lemming cura a Rovigo, e che nel 2024 è accaduta dal 26 al 30 giugno.

«Una grande fiducia nel teatro»: da questo voglio partire.

Scrivo in prima persona, anche se è noto che nelle recensioni è cosa da evitare, per un’occasione che ha nutrito e condizionato il mio sguardo, in questa edizione del Festival: un laboratorio di cronaca e critica teatrale realizzato con venticinque adolescenti del territorio (chi lo desidera ne trova alcune tracce QUI).

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Senza entrare nel merito di questa avventura del linguaggio e dell’accorgersi, che sposterebbe dal focus di queste righe, voglio almeno nominare come questo incontro laboratoriale abbia rinnovato il mio sguardo nella direzione della concretezza – finanche della matericità- comunicativa di ogni atto linguistico (compreso, dunque, ogni dispositivo spettacolare).

È da questa prospettiva che proverò, in estrema sintesi e senza alcuna pretesa di esaustività, a nominare alcuni accadimenti che il Festival ha accolto, a partire da una fiducia larga nelle possibilità evolutive, finanche trasformanti, dell’atto e del patto teatrale (e sa il cielo quanti reali motivi ci sarebbero per muovere in opposta direzione).

I già citati momenti di confronto mattutini, realizzati in un giardino posto nel centro della città, sono stati un elementare quanto netto posizionamento rispetto alla necessità di prender parola nello spazio pubblico nella direzione dell’ispessimento dell’esperienza estetica (dunque, etimologicamente, conoscitiva), con attitudine sideralmente distante dal semplice –e abbruttente- mi è piaciuto/non mi è piaciuto.

Creare discorso, con fiducia (ancora) in questo elementare atto della polis che si ritrova e attraverso il dialogo costruisce senso e comunità: bisogna volerlo fare. Bisogna saperlo fare.

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Nero e bianco, secco e fiorito, soli con specchio e con altra persona, nel privato della scrittura e nell’aperto del prender parola nella piazza: compone opposti con geometrico equilibrio, Rivolti del collettivo MOMEC, che attraverso una precisa forma dà forma, e forza, e voce, a una delle funzioni che, da sempre, l’arte del teatro incarna. Ribellarsi, in questo caso, è rivoluzione che non può che partire dal linguaggio. E da sé.

Ed è un sé in primis corporeo, sensoriale, quello che il Teatro del Lemming ha interpellato e osteso in Chiamata pubblica: un atto di denudamento (Massimo Munaro ha condiviso con chiunque lo desiderasse una parte del training del proprio gruppo) posto in essere in due diversi luoghi del centro storico della città e che, collocato in apertura del Festival, ha costituito una possibile dichiarazione di intenti commovente, nel senso letterale del far muovere insieme chi ha fatto e chi ha guardato. Persone di età, esperienze e mobilità molto diverse, tutte biancovestite, hanno attraversato esercizi che, con progressive aperture e costanti rimandi a figure del mito, del teatro e della letteratura, hanno dato carne e respiro condiviso a ciò che solitamente resta celato.

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Carne e respiro sono motore anche dell’istantanea simpatia che le tre anime del Teatro delle Ariette han saputo ancora una volta creare. Il loro spettacolo-cult Teatro da mangiare? è tornato al Festival dopo quasi un quarto di secolo, analogamento allo Jago di Roberto Latini: entrambi maestri nell’impasto di elementi diversi (autobiografia, poesia e musica i primi, testi drammatici, corpo-voce, materia sonora e materia luminosa il secondo), queste presenze ritornanti hanno almeno per me rappresentato il tentativo di forzare la temporalità insita nell’arte dal vivo, in uno struggente canto alla durata, per dirla con Peter Handke, che ha reso la materia del tempo una concreta, percepibile esperienza.

A proposito di esperienza: misterioso ed ammaliante è stato l’incontro, nel chiostro di un antico monastero della città, con Voodoo di masque teatro. Rituale laico, basato non sulla fede ma sull’atto, si potrebbe sintetizzare con Jerzy Grotowsky, questo accadimento muove da cultura a natura, da forma a informe, da inorganico a organico. Sotto un grande albero una Figura sta, piena di pensieri e silenzio. Attraverso la reiterazione e la progressiva scomposizione dell’atto del sedere e dell’alzarsi da un massiccio sgabello di legno, in dialogo con un battente tappeto ritmico e rumoristico, davanti ai nostri occhi il corpo-in-azione sembra letteralmente cambiare consistenza, da carnale a legnosa. Fulcro primario pare essere la respirazione, da cui origina l’alternanza di tensione e distensione che informa di sé l’intera performance. A un’organica progressione vocalica di espirazioni sonore, lamenti, grugniti e risate sguaiate corrisponde un’energica sequenza di posture stilizzate e bruschi spostamenti nello spazio, che paiono rispondere a una personale esigenza estetica (termine ancora una volta da intendersi come opposto di anestetico, non di inestetico): «scena-crogiolo in cui si rifanno i corpi» si potrebbe dire con Antonin Artaud «per calpestio di ossa, membra e sillabe». Quello che è dato a vedere, in quello che sembra improprio definire spettacolo, è un continuum di quasi 30 minuti di trasformazioni energetiche e modificazioni dello stato di coscienza e del corpo che l’azione stessa produce sulla performer. L’anti-grazioso Voodoo propone un’idea e una prassi di arte performativa come esperienza, lontanissima da ogni intento narrativo, che il pubblico può ricevere per via cinestetica, grazie all’empatia con ciò che accade in scena che anni di studi sui neuroni specchio hanno ormai anche scientificamente validato. masque revoca la figura dello spettatore riformulandone il ruolo in termini di testimonianza: non opera d’arte, dunque, ma opera dell’arte.

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Il legno -ma ripulito, lavorato, concettualizzato- è motore anche della creazione di Fabio Liberti. Meglio: è materia d’uso, come lo sono la plastica e le parole-cose che Maud Karlsson Lima de Faria profonde senza risparmio, prima in differita e poi in diretta, in un dispositivo scenico che fa della totale estroflessione dei propri elementi e del continuo muovere, come una palla su un piano inclinato, tra pars denstruens e pars construens, la propria cifra. La coreografia, termine qui da intendersi nell’accezione etimologica di scrittura di corpi (biologici, materici, narrativi, sonori, luminosi) in uno spazio dato si fa elenco di possibilità, catalogo oggettivo di occasioni, lista di occorrenze che chi guarda può scomporre e ricomporre secondo la propria attitudine e sensibilità. Anche l’autobiografia -questo è il dato forse più sorprendente della creazione- diviene un fatto: cosa tra le cose.

Tanto altro si potrebbe e forse dovrebbe dire su questa impresa culturale.

Ma è estate, ho già chiesto fin troppa pazienza a chi legge.

Dunque mi fermo qui: ma prima voglio ancora una volta, e tanto, ringraziare per questa avventura dei sensi, di senso e visione.

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