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Tanti spettacoli per ragazzi nascono dai libri. Non solo dalle fiabe, ma anche da romanzi best-seller e testi poetici, più o meno moderni.
Durante la rassegna Colpi di Scena, organizzata da Accademia Perduta/Romagna Teatri e ATER Fondazione ho assistito a tre spettacoli che dialogano con un testo letterario, ciascuno con un approccio diverso.
Se consideriamo uno spettacolo come un organismo e il suo testo come un codice genetico, in esso possono comparire, più o meno evidenti, le tracce del DNA genitoriale, ossia dello spunto o del soggetto che ne ha posto le basi.
Nel caso di spettacoli tratti da libri spesso si persegue la via della massima fedeltà al testo letterario, ed ecco allora che lo spettacolo ha intere “sequenze di DNA” che coincidono parola per parola al romanzo/racconto di partenza. È il caso di molti adattamenti recenti, come Blankets (di cui ho parlato qui) e anche del lavoro di Teatro Gioco Vita, La ragazza dei lupi.
La ragazza dei lupi è un romanzo di Katherine Rundell, vincitore del Premio Andersen nel 2017. La storia tratta di una ragazzina, Feo, cresciuta in una famiglia di Liberalupi, cioè individui che liberano i lupi, li proteggono e dialogano con loro. Quando sua mamma viene incarcerata, Feo scappa, aiutata da tre lupi. A loro si aggiunge il giovane Ilya, un soldato che desidera fare il danzatore e che diserta per partire con Feo.
Tutto il racconto è un inno alla libertà, contro ogni forma di dittatura, tanto che nel finale Feo riesce a scatenare una vera e propria rivoluzione e ad avere la meglio sui militari.
Lo spettacolo di Teatro Gioco Vita mette in piedi una complessa macchina scenografica, che da principio richiama subito la vita nei boschi, con un’alta struttura di osservazione in legno, ricchissima di dettagli capace di incantare lo sguardo. Attorno ad essa si muovono i due attori, Valeria Barreca e Tiziano Ferrari. I due riportano e narrano con grande fedeltà il testo della Rundell. Interpretano con diverse voci i personaggi e gli danno vita tramite il sapiente uso delle ombre che contraddistingue da sempre la compagnia teatrale.
È diverso l’approccio di Illoco Teatro, che con Asola & Bottone. Storia di un sarto e della sua anima, traspone il racconto L’anima smarrita di Olga Nawoja Tokarczuk, scrittrice polacca, di recente insignita del premio Nobel per la letteratura.
Roberto Andolfi, il regista, prende il testo letterario e lo porta in scena, ma toglie quasi tutte le parole. Poco del testo effettivo viene mantenuto e le poche frasi dello spettacolo vengono relegate ad alcuni momenti introduttivi e conclusivi tramite un voice over. Tutto il resto è spazio, luce e azione.
Il testo non entra più direttamente nel DNA dello spettacolo, dando forma e parole al testo teatrale. Lo spettacolo non è clone del libro, ma figlio, con l’impronta del genitore ma un carattere unico e particolare.
La storia è quella di un sarto anziano, sempre al lavoro nella sua bottega. Ad aiutarlo c’è la sua anima, la stessa che narra il racconto, ma che non può entrare in contatto con lui direttamente. Una notte la vita del sarto viene ripercorsa tutta: dalle prime aspirazioni, al fallimento, fino alla proposta di un inquietante investitore con cui il sarto firma un contratto di esclusiva. Questo gesto lo porta ad una separazione dalla propria anima. Ma nel finale il sarto, ormai vecchio, strappa il contratto e ritorna alla libertà creativa della giovinezza, riunendosi con la sua anima.
Sarto e anima sono interpretati da Dario Carbone e Annarita Colucci, perfettamente padroni di gesti, posizioni, intenzioni, in un set scenografico per nulla facile da gestire. A farla da padrona sul palco, infatti, è la complessa scenografia di Federico Biancalani.
Una struttura tridimensionale cubica contiene l’intero ambiente in cui si muove il sarto. All’interno, illuminati da luci calde, ci sono manichini, abiti, altri oggetti e tende che delimitano stanze e ambienti differenti. All’esterno, sotto una luce bianca, che sfuma nell’oscurità, è relegata l’anima. Lei si muove freneticamente tutto attorno alla struttura, osservando il padrone, seguendolo, agganciando e sganciando corde per far scendere o salire, con un sistema precisissimo di contrappesi, gli oggetti usati dal sarto.
Un lavoro sulla leggerezza e pesantezza e sul fuori e dentro, che, senza parlare, racconta tutto della storia da cui prende vita.
Il terzo spettacolo è Stravaganze in sol minore del Centro Coreografico Nazionale Aterballetto, che parte dai testi de La mela di Amleto di Toti Scialoja, pittore e poeta italiano. Questa è una raccolta di brevi nonsense verbali in poesia.
Scialoja gioca con le parole, girandoci attorno con rime, ripetizioni, allitterazioni, recuperandole nel loro suono prima che nel loro senso, intrecciando i significanti senza pensare al significato.
Un esempio:
Calma la talpa al chiaro di luna
palpa le sue patate ad una ad una.
Lo spettacolo di Aterballetto vuole proseguire l’indagine sul puro suono delle parole, utilizzandole come spunto scenico e coreografico, affiancate o meno da musiche di vario genere.
Questo scopo viene attuato con la ripetizione insistita, spesso seguendo una melodia cantilenata, delle poesie di Scialoja. Ognuna inserita in un contesto diverso e associata a movimenti e oggetti di scena differenti.
Ad esempio Calma la talpa è declamata dall’attore (e baritono) Piersilvio De Santis, che si rivolge al pubblico e lo coinvolge nel gioco di ripetizione, mentre Vittoria Franchina esegue movimenti di danza indossando una maschera kabuki.
Altre due poesie, Pipistrello ti par bello e Topo topo senza scopo, vengono recitate e ripetute dai due interpreti mentre lottano furiosamente tra loro.
La mela di Amleto viene pronunciata in un fitto fumo, durante un combattimento con spade di legno.
La poesia della lumaca e la luna è recitata una sola volta, dopodiché i due interpreti si lanciano in un ballo di coppia sulle note di Dean Martin.
A volte sembra di trovare delle regole nel movimento, nella melodia, nell’uso di maschere e oggetti, ma subito quest’impressione sfugge.
Lo spettacolo è stra-vagante proprio perché vaga straripando tra espressioni visive, rimbalzando tra i suoni delle parole, senza dettare un terreno comune solido per lo spettatore, determinando un’esperienza a metà tra lo smarrimento, il divertimento (nello svelarsi di volta in volta di nuove stravaganze) e l’attesa.
I tre spettacoli citati partono tutti da testi letterari. I testi sono piuttosto diversi, soprattutto per quanto riguarda Scialoja, ma quello che distingue i lavori presentati è soprattutto l’intento con cui viene affrontata la materia di partenza.
Nel caso de La ragazza dei lupi si tratta di una semplice traduzione del testo in forma scenica. Il romanzo è drammatizzato e sintetizzato per il palco, dove viene narrato, quasi come fosse una lettura, dalla compagnia Teatro Gioco Vita, con le sue modalità e tecniche, efficaci e ben consolidate.
Per Asola & Bottone parlerei più di trasposizione che di traduzione. Dal linguaggio verbale letterario si cerca un linguaggio “teatrale” che sfrutta le prerogative uniche della macchina scenica, per veicolare un secondo livello di significati, che anche nel testo originale possono essere presenti senza essere esplicitati.
Nel caso, infine, di Stravaganze in sol minore l’intento sembra quello della ricerca artistica, che prosegua la scrittura del testo di partenza, andando avanti là dove l’autore aveva messo la parola fine.
Tornando alla metafora iniziale, con il primo spettacolo si ha la conservazione del patrimonio genetico di partenza, con il secondo un’evoluzione controllata e regolata dai meccanismi interpretativi del regista, con il terzo si introducono elementi alieni, per scatenare una rapida trasformazione del materiale in qualcosa di completamente nuovo.
Questi tre percorsi si affiancano a molti altri possibili, che hanno il grande pregio di aprire le porte che spesso separano il mezzo teatrale da quello letterario e favoriscono lo scambio tra i generi, arricchendo la variabilità genetica del nostro patrimonio culturale, che, non dimentichiamolo, vive ed evolve nel tempo.
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