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Nel mese di giugno a Forlì si è tenuto Colpi di Scena, evento biennale di teatro per ragazzi e giovani, a cura di Accademia Perduta/Romagna Teatri e ATER Fondazione. Sono stati portati in scena, in quattro giorni, ben sedici spettacoli, di cui sette prime nazionali, di compagnie provenienti da tutta Italia e dall’estero.
In tutta questa abbondanza di storie, stili, idee e punti di vista è stato possibile confrontarsi ancora una volta con il mondo del teatro ragazzi e trovare, in una diversità di linguaggi, antichi tratti ricorrenti e moderni spunti di innovazione.
Ad esempio, parlando di ciò che ricorre: tra i titoli sui cartelloni del teatro ragazzi compaiono quasi sempre una o più fiabe classiche. A Colpi di Scena ne ho incontrate tre, riprese più o meno fedelmente, reinterpretate mediante determinati linguaggi o anche solo accennate: Barbablù, Cappuccetto Rosso e Hansel e Gretel.
La fiaba è l’alfabeto dell’umanità, un sillabario di elementi che non sono altro che le componenti prime dell’uomo: istinti (la fame in Hansel e Gretel), emozioni (la paura del bosco e del lupo in Cappuccetto Rosso), legami familiari e poi sociali (il rapporto con i genitori di Hansel e Gretel, il matrimonio d’interesse di Giovanna con Barbablù).
Non stupisce dunque che sia ancora al centro del discorso educativo e artistico per le nuove generazioni. Ma come viene portata sul palco?
Innanzitutto, la fiaba è un racconto, viene dalla tradizione orale, e la si può semplicemente ri-raccontare.
È la modalità che contraddistingue artisti-narratori come Marco Cantori del Teatro Perdavvero e Danilo Conti di TCP Tanti Cosi Progetti. Entrambi navigati affabulatori, salgono sul palco e riempiono l’aria di parole, narrando, pagina dopo pagina, la storia.
I loro spettacoli Il segreto di Barbablù (Teatro Perdavvero) e Granny e Lupo (TCP) però, pur con modalità simili, prendono direzioni diverse nel rapporto con la fiaba.
Marco Cantori aderisce perfettamente al racconto di Charles Perrault e lo porta in scena semplicemente arricchendolo di canzoni vivaci e colorandolo con la scenografia vistosa di Denis Riva e con alcuni inserti di teatro d’ombra.
Accanto alla narrazione compaiono elementi scenici simbolici, la presenza di due sagome di cavalli, le due grandi mani ai lati della scena, il viraggio di colore dal blu iniziale al giallo. Tuttavia il grosso dello spettacolo è portato sulle (larghe) spalle di Marco Cantori, perfettamente a suo agio, in grado di divertirsi divertendo, e che si rivolge direttamente al pubblico bambino come a un pubblico di pari.
Danilo Conti, dal canto suo, ha una grandissima esperienza di narratore e ne fa buon uso. Cattura il pubblico già dalle prime parole e inizia anche lui a raccontare, come seguendo le pagine di un libro. Tuttavia nel suo caso il rapporto con la fiaba è diverso.
In una delle due storie, infatti, quella che dà il titolo allo spettacolo, non viene narrata la storia di Cappuccetto Rosso, ma se ne ipotizza un proseguo. Il teatro viene utilizzato come strumento di indagine, che permette di spingere l’immaginazione a cercare nuovi significati e nuove conoscenze. L’ipotesi è questa: la nonna di cappuccetto rosso, Granny, dopo essere stata divorata, è diventata un fantasma e continua ad infestare la sua casa aspettando l’arrivo di un altro lupo in grado di liberarla e darle la pace.
In questa cornice, molto postmoderna e un po’ inquietante, Danilo Conti si muove con i suoi strumenti: la voce, le ombre, e soprattutto i pupazzi, di cui particolarmente impressionante risulta quello del lupo, alto, grande, spaventoso e molto credibile.
Tuttavia, anche senza pupazzi, l’attore è sempre efficace. Nella prima storia infatti interpreta i due personaggi di un lupo e di un capretto con il semplice espediente di una scatola di cartone che, girata da un lato mostra la faccia del lupo, dall’altro quella del capretto.
Granny e Lupo e Il segreto di Barbablù sono spettacoli con modalità simili e spunti diversi. Ma il teatro di narrazione non è l’unica forma per raccontare una fiaba.
Il teatro di Clara Storti è diverso. È puro movimento, tra danza e circo, ed è capace di creare spazi visivi e sonori dosando con cura volumi, parole, lingue e gesti.
Il suo spettacolo si chiama Gretel, della compagnia Quattrox4.
Come dice la sinossi stessa, la fiaba dei Grimm è la suggestione di partenza, da cui l’autrice e attrice si è focalizzata sui temi del perdersi, sui percorsi rischiosi e sul tentativo eroico di superare il dramma.
La storia che racconta, quindi, non è quella della fiaba di Hansel e Gretel. Il percorso fatto di briciole di pane c’è, come anche l’incontro con una strana e magica casetta. Ma ci si discosta dalla struttura della fiaba originale per andare ad astrarre e indagarne alcuni degli elementi, lasciando a chi guarda il compito di interpretare quello che vede.
La scena è composta di piccoli oggetti, in bilico su articolati supporti in legno. Tra di loro si muove, nella sua quotidianità, Gretel, che convive con due strani animali, un cavallino e un piumino, di nome Fritz e Oscar.
Tutto è instabile, tutto è annodato, anche la stessa Gretel che è un nido di movimenti ingarbugliati e, per compiere un’azione, prende sempre il percorso più tortuoso. Una radio a volume basso crea un piacevole e appena percettibile rumore di fondo.
Questa delicatissima quotidianità viene sconvolta quando tutto crolla. Dopo il buio e lo spavento Gretel raccoglie le cose, una ad una, separando gli oggetti dai supporti in legno. Mentre questi ultimi finiscono su un carretto, gli altri vengono incastrati uno sull’altro sopra ad uno sgabello rovesciato. Quando tutto è impacchettato, Gretel si mette in testa lo sgabello e parte.
In poco tempo incontra una casetta sospesa in aria tra le nuvole. L’unico modo per raggiungerla è arrampicarsi lungo una corda, fino alla sommità dello spazio scenico. Gretel non sa come si fa. Prova prima con una mano, poi con l’altra, poi con i piedi. Sale, scivola, rotola, si ingarbuglia. Infine riesce a salire, abbandonando ogni cosa e portando con sé solo i due amici animali Fritz e Oscar.
Anche la casa nel cielo però crolla. Gretel si schianta a terra. Tutto sembra finito ma si accende una luce da fondo sala e Gretel incuriosita, ancora una volta, parte e si avventura.
È evidente di come l’approccio sia differente dai primi due spettacoli citati, sia nel linguaggio artistico che nel rapporto con la fiaba. Se essa è riportata fedelmente ne Il segreto di Barbablù ed è spunto per l’immaginazione in Granny e Lupo, per Clara Storti è miniera di simboli e significati.
In ogni caso la fiaba resta una risorsa. Un luogo di libertà e di ricerca. Sicuramente continuerà a fare la sua comparsa tra una pagina e l’altra nei nostri teatri, nelle nostre storie e nei nostri discorsi.
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