Fernando Marchiori racconta il festival Scene di paglia

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In due intense settimane estive da quindici anni a questa parte, accade che le arti performative arrivano a Piove di Sacco, in provincia di Padova, per poi distribuirsi in vari comuni del territorio, tra la Saccisica e Mirano, in provincia di Venezia, grazie a Scene di paglia, un festival di teatro contemporaneo, nomade e interdisciplinare.

Con un ricco programma di 17 spettacoli tra cui 6 prime regionali e 1 prima assoluta coprodotta dal Festival, proiezioni, presentazioni e incontri, Scene di paglia quest’anno si svolge dal 22 giugno al 7 luglio e porta il titolo “Tenere presente”, un invito a riflettere sulla memoria e sulla smemoratezza.

Com’è nato Scene di paglia?

«Diciassette anni fa – spiega il direttore artistico Fernando Marchiori – su commissione del Comune di Piove di Sacco, l’allora assessorato alla cultura mi propose di pensare a un progetto teatrale. Così ho iniziato a costruire il festival, che inizialmente durava un paio di giorni e si componeva di pochi spettacoli. Nel giro di qualche anno, però, la proposta ha trovato sempre maggiori consensi ed è diventata itinerante, coinvolgendo fino a 12 comuni delle provincie di Venezia e Padova. Una geografia variabile di adesioni e collaborazioni, una rete che fa sempre capo a Piove di Sacco, ma che di anno in anno può allargarsi e modificarsi. Quest’anno sono coinvolti 8 comuni, con un programma di più di 20 appuntamenti sparsi nei diversi paesi.»

Da dove viene il nome “Scene di paglia”?

«Il festival si svolge d’estate e le proposte artistiche dialogano con gli spazi che le ospitano nel paesaggio, nell’architettura, nel tessuto urbano. Spesso sono casoni di campagna e di laguna, idrovore, barchesse, parchi. Il nome Scene di paglia allude a questa dimensione del teatro in spazi aperti, rustici, agresti, ma anche al fatto che è nella natura stessa del teatro, fin dalle sue origini, il suo essere arte sociale ed effimera, un fuoco di paglia che si consuma nel qui e ora di una relazione viva fra artista e spettatore.»

La XV edizione porta come titolo “Tenere presente”. Cosa ci rivela e qual è il filo conduttore che lega gli spettacoli in programma?

«Le limitate possibilità finanziarie e gli aspetti tecnici e logistici di una manifestazione così particolare impongono di scegliere, nel panorama nazionale e oltre, quegli spettacoli che possono andare in scena negli spazi non teatrali del festival e quegli artisti che sono disponibili a modificare gli allestimenti per adattarli al contesto, o addirittura accettano di ripensarli in versione site-specific, com’è di moda dire oggi. Il filo conduttore spesso emerge per una specie di alchimia, facendo reagire le sensibilità e i temi dei lavori selezionati con le contingenze politiche, sociali e culturali del presente. Due anni fa, per esempio, il titolo era “Mentre infuria”: eravamo nel pieno della guerra in Ucraina e il tema del conflitto ha attraversato tutta quell’edizione. Oppure nel 2021 il tema è stato “Corpi e Anticorpi”, per suggerire l’idea che fosse la comunità, nella concretezza delle sue relazioni umane, il vero anticorpo alla degenerazione sociale a cui aveva portato la pandemia di Covid 19. Ecco allora che quest’anno “Tenere presente” vuole riferirsi anche alle edizioni precedenti, rimandando in modo dialettico alla memoria ma anche al suo contrario, la smemoratezza. Pensiamo all’uso strumentale della memoria nel dibattito politico, alla cattiva memoria dei popoli che fatto tornare in vita fantasmi del passato. È il terzo anno che il festival si svolge in tempi di guerra e questo ci interroga anche su cosa significa stare a teatro, ovvero la possibilità di porsi insieme delle domande, pur nel divertimento che uno spettacolo può offrire. Il tema è declinato nella sua dimensione collettiva e individuale, antropologica e letteraria, la memoria del corpo e la perdita di memoria, il dovere di ricordare e il diritto all’oblio».

Quali sono i principali protagonisti?

«Difficile fare una selezione. Il festival si compone sia di spettacoli di recente produzione come Chi resta di Matilde Vigna (3 luglio); sia di prime assolute o regionali, come Il sequestro di Teatro Bresci (25 giugno), dedicato alla vicenda di Carlo Celadon, una ricostruzione civile per guardare al presente attraverso un difficile passato; sia di pièce ormai storiche come Totò e Vicé di Enzo Vetrano e Stefano Randisi (4 luglio), una declinazione poetica beckettiana del tema della memoria e della smemoratezza.

Ma scorrendo il programma, l’apertura sarà in piazza a Piove di Sacco con il concerto del Canzoniere Grecanico Salentino (22 giugno), il 27 giugno sarà invece in scena un duo francese, Bittersweet, con Jamais je n’oublie, uno spettacolo di teatro danza che indaga la perdita della memoria con il linguaggio corporeo. La demenza senile colpisce anche il protagonista del romanzo La riconoscenza, che presenterò il 26 giugno con Marco Paolini. Un’importante presenza è quella di César Brie, uno dei maestri della scena contemporanea, molto amato dal nostro pubblico. Questa volta il regista e attore argentino sarà in scena con L’isola del teatro, un gruppo di otto artisti under 35, in Re Lear è morto a Mosca (1 luglio), che racconta la storia di due attori assassinati dalla polizia di Stalin mentre stavano preparando a Mosca una versione Yiddish della tragedia shakespeariana. Altra compagnia internazionale è la spagnola Rauxa che porterà in scena La crisis de la imaginación (28 giugno), un lavoro che incrocia danza, teatro d’oggetti e acrobatica. Dedicheremo inoltre una personale a Claudio Montagna, artista inventore di un “teatro da tavolo” coinvolgente nella sua semplicità di narrazione con figure. O ancora Silvia Battaglia con La sposa blu (30 giugno), ispirato alla fiaba nera di Perrault, che la vede danzare con alcune marionette per dare corpo alle illusioni dell’amore e alla violenza di genere».

Bittersweet

Chi è il pubblico del festival e come sono le risposte?

«Le reazioni sono spesso calorose. Si tratta di un pubblico partecipe perché “vero”, cioè non composto da molti operatori, critici o addetti ai lavori, ma piuttosto dagli abitanti del territorio e da appassionati che provengono da tutta la regione. Agli artisti piace questa dimensione perché se uno spettacolo funziona o meno lo si sente dalle reazioni non mediate degli spettatori. In questi anni il pubblico ha avuto modo di abituarsi ai nuovi linguaggi della scena e ha accettato la sfida che gli abbiamo lanciato, mettendosi in gioco e avvicinandosi anche a espressioni artistiche che prima non conosceva. Sono inoltre una consuetudine del festival gli incontri con gli artisti per approfondire le tematiche affrontate negli spettacoli o per spiegare certi aspetti tecnici, storici o teorici del laro teatrale. Tuttavia il nostro è rimasto un pubblico schietto, che sa emozionarsi ma anche reagire in modo critico se non gradisce la proposta artistica».

Cosa auspicate per il futuro del festival?

«Il rischio culturale è enorme. Ci esponiamo ogni anno con un programma che è da grande città e che non ha nulla da invidiare (fatte le dovute distinzioni) ai ricchi festival di teatro contemporaneo. E lo facciamo per un pubblico eterogeneo in un territorio poco abituato alle arti sceniche. In questo momento siamo forse l’unico festival indipendente di teatro contemporaneo presente nelle provincie di Venezia e Padova. Ma Scene di paglia non potrà continuare in questa precarietà felice, dovrà riuscire a costituirsi come un ente stabile, riconoscibile e riconosciuto, affinché possa diventare un interlocutore per tutti i soggetti coinvolti, gli enti istituzionali, le associazioni e le realtà produttive del territorio. Ciò permetterebbe di avere una programmazione più ampia e articolata, di migliorare il lavoro di tecnici, artisti e organizzatori e di dare continuità, anche al di là del periodo del festival, ad un progetto culturale ormai consolidato ma dalle potenzialità ancora interessanti in termini di ricadute culturali, sociali ed economiche sul territorio».

Per ulteriori informazioni: https://www.scenedipaglia.net/ 

 

 

 

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