La triplice questione della presenza. Note su Rabicano Festival di Teatro Nucleo

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ph Luca Gavagna

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«Esplorare tutti gli “E se?” della vita»: viene in mente un frammento della bella intervista rilasciata dall’attrice, regista, produttrice cinematografica e attivista israeliana Natalie Portman a Claudia Catalli, pubblicata su L’Espresso di qualche settimana fa, accingendosi a restituire qualche pensiero a proposito della prima edizione di Rabicano | Festival Internazionale del Teatro per gli Spazi Aperti, che ha avuto luogo a Ferrara dal 3 al 12 maggio scorsi con la cura di Teatro Nucleo e la direzione artistica di Natasha Czertok e Marco Luciano, in occasione dei primi cinquant’anni di lavoro del gruppo.

E se?: domanda elementare che pone radicalmente in campo presenza e possibile cambiamento, una soggettività collocata in un qui e ora e al contempo il suo protendersi verso un altrove.

Il progetto posto in essere da Teatro Nucleo ci sembra declini tale questione in triplice direzione: scenica, più largamente culturale e ancor più largamente sociale e politica.

Proveremo qui a nominare alcuni accadimenti che, a Rabicano, han fatto risuonare tali prospettive.

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Ma prima: LA DOMANDA DEL FESTIVAL

«Tutto ciò che io ti dico, prendilo come una domanda»: parafrasiamo il teacher of Performer Jerzy Grotowski in dialogo con il suo collaboratore essenziale Thomas Richards per suggerire l’attitudine interrogante che la complessa proposizione di Teatro Nucleo ha fatto programmaticamente emergere.

Il discorso posto in essere dal Festival (usiamo questo termine nell’accezione focaultiana di rapporto dialettico tra potere e sapere) sembra aver voluto in molti modi problematizzare la ricezione di quanto è stato offerto allo sguardo, cercando di superare la trista riduzione «mi è piaciuto / non mi è piaciuto» o l’ancor più annichilente (e invero affatto diffuso nell’ambiente teatrale) «funziona / non funziona», nella salvifica direzione della complessità: rivolgendosi, cioè, ai molti ii, per dirla con Edoardo Sanguineti, di cui ogni persona è costituita.

Detto altrimenti: cose diverse (spettacoli, in primis, ma anche convegni, laboratori e incontri) leggibili da molteplici prospettive.

Tutto questo attraverso proposte massimamente estroflesse (tutte peraltro gratuite) e disseminate in zone diversissime della città (tra cui la geniale intuizione di una mostra fotografica esplosa in decine di fermate delle linee degli autobus cittadini), secondo un’idea e una pratica di arte per tutti e per ciascuno, anche e soprattutto per il non-pubblico: bisogna volerla fare, una tal capriola, bisogna saperla fare.

 

Roberta Carreri, Il Cammino di Nora

 

QUESTIONE SCENICA

Un primo fatto che Rabicano Festival ha posto in evidenza ha carattere squisitamente teatrale: la presenza scenica.

Faccenda tanto ineffabile quanto da ogni guardante chiaramente esperibile: cosa fa sì, ad esempio, che in un gruppo di performer impegnatə in un’azione fisica e/o vocale in sincrono, identica per ciascunə, la nostra attenzione sia del tutto catturata da una persona e per nulla da un’altra?

Cosa rende intrigante il fare / lo stare performativo, soprattutto se e quando la persona non è impegnata in un fare esplicitamente virtuosistico?

Come si vivifica una «struttura biologica impressa di materia sognante», per tornare a una folgorante definizione usata da Franco Acquaviva nella propria nutriente restituzione, sulle pagine di Sipario, di quanto incontrato nei giorni scorsi a Ferrara?

Su tali questioni gli studi teatrologici si sono a lungo e in molti modi soffermati, non è certo questa la sede per riassumere alcunché.

Un aspetto che però si può forse almeno nominare, anche a partire dal milieu di Rabicano e di chi l’ha popolato, è la questione del training, postura etica ancor prima che estetica, manifestazione incarnata di una idea e una prassi di teatro artigianale di gruppo che, in apertura del Festival, ha avuto, programmaticamente, un’incarnazione.

Il Cammino di Nora è traccia del meticoloso, rigoroso e visionario lavorio che Roberta Carreri da cinquant’anni (da quando, nel 1974, arrivò all’Odin Teatret) porta avanti e di cui questa dimostrazione di lavoro, sulla creazione e il montaggio dell’improvvisazione, anche in relazione al celebre Casa di bambola di Henrik Ibsen, ha messo a nudo alcune procedure.

L’asciutto magnetismo di questa indiscussa Maestra della scena degli ultimi decenni pare nutrirsi, si potrebbe forse brutalmente sintetizzare, di un magistero nella composizione di elementi diversi, a volte apparentemente antitetici (biografici e letterari, ma non solo) e di parametri oggettivi (altezze, dimensioni, velocità, tensioni e rilasci, eccetera).

Altro elemento costitutivo di quella precisa possibilità di presenza: il rigore. Un minuscolo esempio, fra i mille possibili: verso la fine della dimostrazione di lavoro, in una sequenza fisico-vocale Carreri sbaglia una parola. Si ferma per un istante, dice «Ho sbagliato» e, semplicemente, la rifà. A noi ha ricordato una sua dimostrazione di lavoro di molti anni fa, Orme sulla neve. Quando la vedemmo, forse tre decenni or sono a Ravenna, capitò una cosa simile: durante una sequenza al rallentatore a terra Carreri si fermò, perché un braccio ebbe un minuscolo cedimento: «Una caduta di un centimetro è pur sempre una caduta». E, semplicemente, la rifece.

Bisogna volerlo, un tale rispetto per il materiale con cui si lavora, bisogna saperlo mantenere.

 

ph Elena Ragazzi

 

QUESTIONE CULTURALE

Tra ciò che abbiamo incontrato a Rabicano la proposizione che con maggior forza ci ha ricordato la generativa relazione fra i discorsi e il proprio contesto (a creare qualcosa non di universale, ma di culturale) è P.O.P. Piccola Orchestra Pasolini di Teatro Nucleo, andato in scena in Piazza dei Poeti.

Al di là della toponomastica perfetta per questo omaggio, in forma di cabaret teatrale e musicale, al celeberrimo e poliedrico intellettuale, ancor più in sintonia con il suo posizionamento è l’aver collocato l’opera nel cuore di un vecchio quartiere popolare della città, peraltro in prossimità di alcuni lavori in corso.

Per inciso: come non pensare all’arcinota poesia Il pianto della scavatrice con l’incipit che potrebbe esser preso come manifesto, per questo Festival e per chi l’ha creato: «Solo l’amare, solo il conoscere / conta»?

Tra impermeabili, mocassini e occhialoni scuri e squadrati le Figure in scena evocano «il Pasolini che abbiamo in mente», peraltro rappresentato in una piccola fotografia incorniciata, appesa a fondo scena.

Il paesaggio sonoro in cui lo spettacolo accade accoglie cani che abbaiano, biciclette che passano e un’anziana signora che a un certo punto sbraita ripetutamente «Non fate tutto questo casino!»: un intreccio che pare perfettamente in sintonia con lo sguardo colto, tutt’altro che da popolano, che Pasolini posò sui mondi del sottoproletariato a lui coevi.

Il dispositivo scenico di Teatro Nucleo traduce ciò che nella seconda metà dell’Ottocento veniva chiamato Teatro del Grande Attore (con una figura nota a far da catalizzatrice e collante a materiali eterogenei) in Teatro per il Grande Autore (giustapponendo scene e canzoni, azioni fisiche e vocali, ed il cabaret a far da cornice-contenitore).

Ecco dunque che i molteplici codici linguistici (musicale, canoro, attoriale) messi in campo si ibridano ulteriormente in e con una varietà culturale e, più largamente, umana (basti citare, a mo’ di sineddoche, chi si è recato intenzionalmente in quel luogo per vedere lo spettacolo e chi vi si è fortuitamente imbattuto, con le proteiformi reazioni del caso).

Bisogna saperla fare, una tale estroflessione, bisogna volerla fare.

 

ph Teatro Nucleo

 

QUESTIONE SOCIALE E POLITICA

Aver a che fare con il fuori (dei teatri, delle norme sociali, dei codici stilistici convenzionali) è, da cinquant’anni, l’attitudine poetica e politica di Teatro Nucleo.

Al festival da loro curato ciò si è inverato in (almeno) due modi.

È rinato il loro Quijote!, imponente spettacolo per gli spazi aperti presentato oltre 400 volte, dal 1990 al 2008, in 3 continenti: numeri che, nel caso di Teatro Nucleo, non sono mera statistica, o semplice vanto, ma concreta manifestazione di una pervicace volontà di entrare in contatto con molti e differenti consorzi umani, radicalmente popolari, a partire dall’equivalente scenico del celebre e celebrato romanzo spagnolo di Miguel de Cervantes Saavedra.

Equivalente scenico: usiamo arbitrariamente questa espressione per suggerire un’ipotesi: Quijote! non manifesta unicamente il gusto per il letterario e per il picaresco, per i guizzi e la grandeur scenica, ma rappresenta un’allusione ai vizi del tempo, alla corruzione dei costumi, al disfarsi di un mondo e, al contempo, all’inesausta voglia di costruirne uno altro e alto, da dentro.

È organicamente inscritto in tale visionaria pars construens il commovente incontro in cui Horacio Czertok, in dialogo con l’editore Piero Somaglino, ha presentato due recenti volumi (a dar conto di un tutt’altro che recente percorso): Libertà vo’ cercando. Il lavoro del Teatro Nucleo nel carcere di Ferrara e Contra Gigantes. Narrazione per attore solo e complici spettatori.

Dalle ossessioni interroganti attorno al romanzo di Cervantes ai dubbi ontologici sul rischio di avallare con il proprio lavoro in carcere un’istituzione totale del tutto nefasta, il co-fondatore di Teatro Nucleo ha raccontato e ragionato, con commovente semplicità, dei vincoli, dei paradossi e delle possibilità che il frequentare attivamente e criticamente tali luoghi -sociali e letterari- può schiudere.

 

ph Teatro Nucleo

 

CORA, INFINE

A proposito di presenza (e del suo opposto): tutto il Festival è stato segnato dal ricordo-in-azione di Cora Herrendorf, co-fondatrice di Teatro Nucleo scomparsa poco più di un anno fa.

A conclusione di queste insufficienti note riportiamo, per stare ancora un attimo in compagnia della sua voce, delle sue visioni e delle sue rivoluzioni, l’ultima intervista che le facemmo: qui.

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