.
Saremo superficiali se dicessimo che quest’ultimo spettacolo di Emma Dante sia poco riuscito o, peggio, che non funzioni. Saremmo falsi e faziosi. Da anni però abbiamo assistito alla santificazione della regista palermitana, sicuramente talentuosa tra teatro, opera e cinema, per la quale il pubblico, ad ogni latitudine, ha una vera e propria adorazione e venerazione urlando al capolavoro o al genio ancora prima che si apra il sipario. Possiamo dire che questo Re Chicchinella, ancora tratto dalle favole nere di Giambattista Basile (Dopo il buono La scortecata e il meno intenso Pupo di zucchero) ha un bellissimo impianto coreografico, estetico, formale fatto di grandi quadri incorniciati da costumi, luci e un paio di trovate (la croce blu elettrica e l’epifania della gallina finale) che remano all’unisono per confezionare un prodotto, d’altissima qualità s’intende (la Città del Teatro di Cascina diretta da Cira Santoro era stracolma e questo è assolutamente un bene per tutto il teatro), tecnicamente perfetto, accurato, preciso, dettagliato. La critica che abbiamo sollevato più volte riguardo ad alcuni lavori della Dante (altri invece ci sono rimasti tatuati sulla pelle come Vita mia, Carnezzeria, Mishelle di Sant’Oliva, Il festino o i recenti Le sorelle Macaluso e Misericordia) non è certamente una mancanza di profondità ma in qualche modo notiamo un innamorarsi di una immagine, di una visione artistica, di un affresco colorato perfetto nel suo colpo d’insieme, talmente compiuto da mancarci quella sporcatura che è inevitabilmente parte integrante della vita, di quelle esistenze laterali e periferiche che l’autrice ci ha insegnato ad apprezzare attraverso le sue drammaturgie crude e senza sconti. Scene dove la tecnica sopravanza il cuore, dove l’occhio vince sul contenuto.
Qual è la parabola, la metafora di Re Chicchinella? Un regnante dentro il quale, come un verme solitario, come una tenia o come un tumore, si installa un virus che ha le sembianze di una gallina che, una volta entratagli dentro l’orifizio meno nobile, con grandi dolori per l’evacuazione, gli regala uova d’oro, gemme pregiate per le quali non può gioire per i tormenti lancinanti che questo gli provoca e procura. Il sovrano, incastrato in questo incantesimo senza soluzione, forse punito perché avido e avaro, non potrà godersi la ricchezza derivante dalle sue defecazioni auree come era capitato a Re Mida che trasformava tutto quello che toccava in oro compreso però i cibi solidi e i liquidi e quindi impossibilitato ad alimentarsi. Chicchinella invece autonomamente non vorrebbe mangiare anoressicamente per non subire i travagli intestinali per le sofferenze della produzione ed espulsione del maledetto uovo di metallo prezioso. E’ la corte che lo vuole stimolare e invogliare con pranzi luculliani e pantagruelici ad ingerire qualcosa per poi avere il lauto lascito dell’uovo. La corte, che è composta da una dozzina di danzatori che hanno costumi con grandi cosce tornite da polli ingrassati da batteria, gli sta attorno quasi asfissiandolo con la loro costante presenza invasiva e invadente.
Interessante, misteriosa e ancora da decifrare, l’aver usato ad inizio rappresentazione la Passacaglia cantata in versione barocca per poi, dopo l’evoluzione scenica, farci ascoltare quella originale di Franco Battiato, intervallando le due canzoni da l’aria Lascia ch’io pianga sempre scenograficamente malinconica. In definitiva il lungo piano sequenza di Re Chicchinella (Carmine Maringola super in tutù di piume nere luttuose, sempre iconico attore di culto) ci porta dal pranzo trionfante (il gioco con le tazzine ci ha ricordato Thanks for Vaselina di Carrozzeria Orfeo) alla morte (ci è venuto alla mente Pinocchio o la tragica fine di Natale in Casa Cupiello). Ricercando un senso intimo e ultimo del testo possiamo trovare un paio di parallelismi, con L’uomo dal fiore in bocca di Pirandello, dove il fiore era un cancro o ancora con Prometeo che Zeus incatenò per aver dato il fuoco agli uomini con l’atroce punizione di farsi mangiare ogni giorno il fegato da un’aquila, organo che gli ricresceva ogni notte e che puntualmente il rapace tornava a cibarsi quotidianamente. Ma abbiamo visto un’analogia anche con la tesi che Vitaliano Trevisan descrisse nel suo Una notte in Tunisia (con un magistrale Alessandro Haber sul palco) dove lo stivale dell’Italia veniva paragonato al piede di Craxi, arto con una piaga a rischio amputazione. Il geniale scrittore veneto nella sua disamina ci spiegava come, in alcuni gravi casi, l’estirpazione del tumore non porti alla salvezza del paziente ma anzi alla sua dipartita, così come asportare la corruzione e la malavita endemica dal nostro Bel Paese significava la morte stessa della nazione. Del Re, con il quale durante l’ora della recita abbiamo instaurato un’empatia viscerale, alla fine rimarrà soltanto la gallina (vera, viva) come a dire che si è salvato sineddoticamente la parte per il tutto. Piacevole, fruibile, godibile senza che nessuno si sia scartavetrato l’anima. Borghese, senza dare a questo aggettivo alcuna connotazione nefasta.
,