Elogio della scomodità. Intervista a Ivonne Capece, nuova direttrice del Teatro Fontana di Milano

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Era il 2013 quando Ivonne Capece, regista e performer teatrale, fondava a Bologna insieme alla visual artist e costumista Micol Vighi, Sblocco5, una compagnia e un centro di formazione e di ricerca. Il lavoro creativo delle due artiste si è fin da subito posizionato al confine fra le discipline artistiche, in un percorso sperimentale d’intreccio e incontro fra differenti linguaggi, maturando un’estetica e una poetica iconica, di stampo pittorico e fortemente riconoscibile. La ricerca le ha poi condotte a far incontrare la scena con le nuove tecnologie, dalle più semplici come l’audio e il video (come per gli spettacoli Thinking Blind o Frankenstein), alle più complesse e innovative come la robotica o l’intelligenza artificiale, fra le linee di approfondimento e di studio del loro LUCY Festival

Lungo il cammino, è arrivato anche il felice incontro con Elsinor – Centro di produzione teatrale che, dopo alcune progettualità condivise, ha indicato Ivonne Capece come la nuova direttrice del Teatro Fontanadi Milano, finora guidato da Rossella Lepore.
Una nomina interessante per il panorama teatrale e culturale italiano di oggi, sia sotto il profilo anagrafico (Capece è classe ‘82) sia sul piano dell’innovazione dell’arte scenica.

Ivonne, come descriveresti la tua idea di teatro se dovessi tradurla in un’immagine? 

«Più che a un’immagine, penso a una sensazione fisica che scaturisce dalla visione di un’opera. Di recente sono tornata al Mausoleo di Galla Placidia (ndr Ravenna) e mi sono soffermata a osservare la meravigliosa cupola: è così ricca di dettagli da richiedere molto tempo per essere colta a pieno. A stare però in quella posizione, con la testa e lo sguardo rivolti verso l’alto, è davvero faticoso fisicamente, tanto che a un certo punto è diventato quasi insopportabile. In quel momento mi sono resa conto che il modo in cui i medievali dipingevano le cupole non si basava solo sul desiderio di restituire l’idea di cielo e di spiritualità, ma anche sulla posizione che la persona doveva assumere per guardare. Non si tratta infatti di una postura naturale, presuppone una tensione verso l’alto, essa è scelta, volontaria e di fatica. In altre parole, per accedere alla bellezza e alle meraviglie del cosmo non si può stare seduti nella comodità, come avviene per esempio con la televisione, fatta per essere guardata orizzontalmente e nel comfort del divano di casa. 
Mi piacerebbe quindi che la visione teatrale facesse suo il principio della scomodità, perché la bellezza non è una fatica solo per chi la crea, ma richiede impegno, intelligenza e tensione spirituale anche da parte di chi guarda». 

A quali azioni stai immaginando per rendere concreta questa “scomodità”?

«Il processo di costruzione dell’identità di uno spazio teatrale è un procedimento molto lungo, perciò non ho la pretesa o l’illusione di poterlo costruire nella sua forma migliore nell’arco di una sola stagione. Quella che ho descritto prima è un ideale a cui vorrei tendere. Per farlo, immagino di proporre delle esperienze spiazzanti, ovvero capaci di rompere il concetto di comodità e di quotidianità di visione e di partecipazione. Da una parte vorrei riuscire a far crollare il preconcetto secondo cui a un dato contenitore debbano corrispondere solo certi contenuti: a teatro quindi si può andare non soltanto per assistere tradizionalmente a uno spettacolo, ma anche per partecipare a una performance, per trovarsi di fronte a una pièce solo da ascoltare, o a un’opera in video… L’idea è quindi di mettere in crisi l’abitudine e rompere le zone di comodità, che spesso provocano pigrizia e una perdita dello stimolo alla curiosità per qualcosa di diverso dal consueto». 

Quindi si potrebbe dire che fra gli obiettivi c’è quello di far crollare le aspettative dello spettatore…

«Si esatto, creare dei momenti di sorpresa. In questo senso, sto pensando anche a progetti capaci di dilatare i tempi e gli spazi dell’evento teatrale, ovvero delle esperienze di tipo performativo, creativo o emotivo attorno, prima o dopo lo spettacolo. Ovviamente si cercherà di lavorare su diversi livelli di complessità, perché l’intento non è di rendere il teatro un luogo irriconoscibile o deludente, bensì un ambiente capace di sorprendere perché mostra una natura molto più diversificata di quanto si pensasse».

Entrando nel contesto del Teatro Fontana, che cosa ti ritrovi fra le mani, che identità ha oggi questo spazio e in quale tessuto culturale della città di Milano è inserito?

«Il Teatro Fontana ha una storia di continui mutamenti. Nasce originariamente nell’area di Forlì in un contesto cattolico, con una programmazione dedicata all’infanzia e alla gioventù. Nel tempo si è trasformato dal teatro ragazzi a un calendario pensato per tutti, con particolare attenzione ai classici, fino ad arrivare a quest’ultima fase che vede un’apertura al contemporaneo. Le basi sono state messe dalla direttrice uscente Rossella Lepore attraverso azioni quali il talent scouting, lo sguardo sulla nuova drammaturgia, il coinvolgimento di nuove generazioni di artisti…
Questa continua metamorfosi da una parte può rappresentare un limite, tanto che negli ultimi dieci anni si è cercato di creare le premesse affinché, a questo punto del percorso, il Fontana potesse costruirsi un’identità più definita: la scelta di Elsinor verso di me credo vada proprio in questa direzione. Dall’altra, questa indefinitezza è affascinante perché permette una maggiore libertà creativa

Per quanto riguarda Milano, è una città che sto ancora studiando: è più complessa e ricca di Bologna, i poli culturali sono davvero tanti. Noto però due poli: luoghi off fortemente sperimentali e realtà più centrali e con programmazioni per tutti. Credo quindi che uno spazio in cui inserirsi possa essere quell’area che si colloca al confine fra i due». 

Da quello che racconti, non stai immaginando soltanto una stagione, ma anche una serie di attività collaterali alla visione rivolte al pubblico e percorsi dedicati agli artisti. È così? Di cosa si tratta? 

«Si, immagino un sistema di attività ed esperienze al confine tra le arti, che si configurino quasi come una stagione parallela. Inoltre, intendo dare molto spazio alla formazione e alla ricerca, costruendo un dialogo con l’Alta formazione CROSS che da anni con Sblocco5 porto avanti in collaborazione con Elsinor. Da qui, quindi, vorrei aprire le residenze studio per gli artisti del corso, affinché possano fare della loro ricerca un vero e proprio spettacolo, che poi potrà essere ospitato in stagione. Sto inoltre creando delle partnership con accademie e scuole fuori dall’ambito teatrale: sono stata per esempio in una scuola di fotografia e insieme stiamo costruendo una progettualità per l’anno prossimo, per ospitare installazioni fotografiche permanenti al Fontana. Mi piacerebbe che il teatro fosse quindi anche uno spazio espositivo e di co-creazione con altre realtà».

Questa ibridazione di linguaggi e arti ha molto a che fare con la poetica e la ricerca di Sblocco5, la tua compagnia. Tu, come molte altre figure del teatro italiano, prima di essere una direttrice sei innanzitutto un’artista. Come concili i due ruoli e quali sono i rischi che vuoi evitare?

«Personalmente vedo la direzione artistica come un’esperienza creativa dilatata: è come realizzare un’opera attraverso una composizione di diverse identità e performance. Mi piacerebbe infatti che la stagione nel suo complesso venisse percepita come un lunghissimo spettacolo, in cui ogni evento è una scena. Un’esperienza, insomma, che per comprenderla a pieno va attraversata tutto l’anno seguendo le varie tappe. Questo modo di intendere la direzione artistica nella mia mente avvicina i due ruoli.

Il rischio che vorrei evitare, ma questo vale anche se non si è artisti, è che la mia visione estetica e poetica possa influenzare troppo le scelte di programmazione. Inoltre il direttore artistico di un teatro ha spesso un accesso facilitato a delle risorse ed è importante fare in modo che queste non vadano a coprire esclusivamente una propria linea o progetto, ma essere sempre aperti e pronti a investirle su spettacoli, opere e progetti lontani da sé».

E viceversa, invece? Quali rischi incorre la propria poetica a stare in questo doppio ruolo di artista-direttrice? 

«In questo momento il mio timore più grande è che l’energia emotiva e temporale della direzione non mi permetta più la ricerca personale. È chiaro che ora questo percorso dovrà essere più limitato e circoscritto, ma non intendo abbandonarlo. Cercherò infatti di ritagliarmi ogni anno almeno un progetto di studio a cui tengo molto e in cui credo, senza concentrare l’attenzione sulla produzione di uno spettacolo in senso stretto, ma impegnandomi in altre attività creative e di ricerca. Per esempio, sto attualmente collaborando a un progetto di Carlotta Viscovo, su un testo di Angela Dematté, per cui mi hanno chiesto di curare la componente video. Attraverso questo progetto non mio, quindi, continuo a studiare e a stare in prima persona all’interno della creazione di un lavoro». 

La tua formazione passa dallo studio della filologia medievale alla storia della regia, fino a entrare nel vivo della pratica artistica. Chi era l’Ivonne che giovanissima si affacciava al mondo universitario iscrivendosi a filologia e chi è l’Ivonne di adesso? Quale filo le lega ancora?

«Ero una ragazza molto rigorosa, ho sempre studiato tanto, questo me lo ricordo bene. L’accanimento verso la ricerca, lo studio e il desiderio di avere una conoscenza profonda delle cose è qualcosa che è rimasto invariato in me. Un altro filo che resta è la modalità con cui mi approccio alle arti e alla cultura: filologia medievale può apparire lontana dalla regia teatrale, ma si tratta di una laurea in lettere e quella sfumatura sulla linguistica è di fondo un metodo di analisi e studio, puntuale e preciso. Il mio approccio alle discipline umanistiche per essere davvero efficace ha bisogno di questa componente scientifica: è come riuscire a raggiungere e centrare un punto dentro una materia, l’arte, che è inconsistente, almeno all’apparenza. C’è sempre un rigore matematico dietro qualcosa di irrazionale, che anche se tale non è mai arbitrario». 

Il contesto teatrale e culturale in cui ci troviamo, specie a fronte delle nomine nei Teatri Nazionali, mostra una situazione torbida e confusa, mentre i movimenti che tentano una reazione appaiono ancora deboli. Chiaramente l’ambiente in cui ti trovi è molto diverso, ma come vedi queste vicende? Cosa pensi sia necessario cambiare, anche con le micro-azioni, e quali sono i punti chiave che andrebbero sbrigliati?

«In parte credo che il gesto di Elsinor possa essere interpretato come un piccolo segno di cambiamento. Come dici, siamo in un contesto diverso e privato, quindi c’è una libertà maggiore rispetto alle istituzioni pubbliche; tuttavia affidare la direzione artistica di un teatro a un’artista proveniente da una realtà indipendente, lontana da ogni rapporto politico e ideologico, credo sia comunque un segno interessante e in contrasto alle logiche dominanti.

Un altro aspetto in ottica di cambiamento è l’aver passato il testimone a una figura anagraficamente rappresentante una generazione “più giovane” rispetto a chi guida oggi le istituzioni culturali. E si sente: l’altro giorno parlavo con un artista della mia stessa età e mi diceva di essere molto felice di potersi confrontare con una direttrice artistica con la quale sente di condividere uno stesso alfabeto, avendo così la sensazione di poter costruire progettualità e ipotesi di futuro insieme. Detto questo, è evidente che ci troviamo di fronte a un contesto culturale profondamente stanco di certe dinamiche e mi auguro che alcuni meccanismi si stiano cominciando a scardinare. Sebbene quello del Fontana sia piccolo e poco vistoso, è comunque un segno positivo da osservare». 

Tra queste dinamiche da scardinare, mi viene da dire ci sia anche la questione di genere: essere donna a ricoprire un ruolo di potere, specie nella cultura e nel teatro italiani, purtroppo non è scontato. Come ti rapporti con questo fatto?  

«Nelle necessità di cambiamento ho evitato di segnalare questo aspetto perché credo sia una questione così delicata che nel momento in cui si scoperchia si rischia di cadere in banalità. Io, inoltre, in generale non amo porci l’accento. Quello che mi auspico è che questa smettesse di essere una questione: avere donne alla guida di istituzioni culturali dovrebbe diventare l’ordinario, così non ci sarebbe più bisogno di interrogarci sulla particolarità o sui significati di una certa scelta. La mia nomina al Fontana è stata fatta a prescindere dell’essere uomo o donna e questo dovrebbe diventare la consuetudine. 

Lo stesso sul piano della programmazione: di fatto ho incontrato molte proposte legate all’universo femminile e realizzate da autrici, pensatrici. In stagione quindi la presenza di donne sarà percepibile, ci saranno artiste coinvolte a vario titolo, ma non perchè voglio porre l’accento sul femminile: la creatività è semplicemente composta anche di donne e di certi temi a loro cari, ad oggi in aumento, e quindi credo sia semplicemente il segno di qualcosa in mutazione»