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Di tutti i cambiamenti di lingua che deve affrontare il viaggiatore in terre lontane, nessuno uguaglia quello che lo attende nella città di Ipazia, perché non riguarda le parole ma le cose. Entrai a Ipazia un mattino, un giardino di magnolie si specchiava su lagune azzurre, io andavo tra le siepi sicuro di scoprire cose belle e giovani dame fare il bagno: ma in fondo all’acqua i granchi mordevano gli occhi delle suicide con la pietra legata al collo e i capelli verdi d’alghe.
Si sa: la storia delle arti (plurale fenomenologicamente necessario) è storia del come, non del cosa.
È faccenda di linguaggio, non mi stanco di ripeterlo: esso crea il reale, non solo lo racconta o commenta.
Me lo sono ricordato un paio di settimane fa, domenica 3 marzo, nella grande agorà di Triennale Milano.
Una varietà abbacinante di stimoli nutrienti e stranianti, per me ex-ragazzo campagnolo e sempliciotto, che ora cercherò in parte di restituire senza pretesa di esaurirli, va da sé.
Non hanno alcun rigore scientifico, queste brevi note: solo condivisioni delle impressioni di un viandante.
Per prima cosa ho visto i lavori di Mariella Bettinelli: «Artista femminista, si contraddistingue nel panorama internazionale per la continua ricerca di linguaggi capaci di raccontare, attraverso pittura, scultura, disegno, collage, fotografia, digital painting, la centralità della donna e le sue infinite capacità di mettere al mondo il mondo», leggo.
Mi colpiscono le sue figure con gli occhi sfalsati, lo straniamento dato da quella fredda e al contempo sanguigna sdoppiatura.
Penso a certo concettuale analitico anni Settanta, a quella ruvidità visiva prerequisito a suo modo essenziale per una rivoluzione, di significanti e significati.
Nei nostri tempi, ben più smaterializzati e disillusi, rimettere al centro la questione dello sguardo, domandarsi chi guarda chi, è forse un (il) modo per «mettere al mondo il mondo»?
Mi sentii defraudato e volli chiedere giustizia al sultano. Salii le scale di porfido del palazzo dalle cupole più alte, attraversai sei cortili di maiolica con zampilli. La sala nel mezzo era sbarrata da inferriate: i forzati con nere catene al piede issavano rocce di basalto da una cava che s’apre sottoterra.
Passo alla mostra dedicata alla star Ron Mueck.
Poche opere (sei in tutto, dal gigantesco al minuscolo) e due video.
Arte come imitazione della natura, come si diceva nel Settecento, ma con il correttivo straniante della sproporzione.
Arte come eccezionalità, iper realtà, espressione di téchne: è a suo modo classico, Mueck, nel patto di ammirazione che, eloquentissimo ancorché muto, stabilisce con chi incontra il suo lavoro.
Certo non pensano a queste vetuste etichette i bambini che corrono e ridono con voci zeppe di campanelli nella grande sala tra le decine di teschi giganteschi: morte e vita, rappresentazione e presentazione, immobilità e dinamismo, tutto è lì rappreso.
Certo non ci pensa la ragazza cinese in minigonna e giacchetta corta a quadri che si fa scattare dall’amica decine di foto in mezzo ai teschi mentre lei fa mille mossette da modella: iperbole del pop, del niente che siamo.
Non mi restava che interrogare i filosofi. Entrai nella grande biblioteca, mi persi tra scaffali che crollavano sotto le rilegature in pergamena, seguii l’ordine alfabetico d’alfabeti scomparsi, su e giù per corridoi, scalette e ponti. Nel più remoto gabinetto dei papiri, in una nuvola di fumo, mi apparvero gli occhi inebetiti d’un adolescente sdraiato su una stuoia, che non staccava le labbra da una pipa d’oppio.
Attorno a Casa Lana mi affaccio sui mondi di Ettore Sottsass, architetto-umanista, meglio: architetto-poeta, sia nell’accezione comune del suo usar parole precise e precisi segni per restituire vissuti d’amore e morte e avventura del senso e dei sensi, sia nell’accezione etimologica del creare, attraverso i linguaggi verbali e visuali, mondi e spazi.
Vuoi guardare il muro o vuoi guardare la valle?
Arte come possibilità di ravvivare la responsabilità del proprio sguardo, del proprio posizionamento.
– Dov’è il sapiente? – Il fumatore indicò fuori dalla finestra. Era un giardino con giochi infantili: i birilli, l’altalena, la trottola. Il filosofo sedeva sul prato. Disse: – I segni formano una lingua, ma non quella che credi di conoscere –. Capii che dovevo liberarmi dalle immagini che fin qui m’avevano annunciato le cose che cercavo: solo allora sarei riuscito a intendere il linguaggio di Ipazia.
Juergen Teller mi ricorda un altro celebre tedesco contemporaneo, Wolfgang Tillmans, per quella fotografia oggettiva, di cose che significano in quanto tali.
Teste tagliate, prospettive sbilenche, nessun romanticismo.
Forse.
Ma anche immagini per la moda, anche per Yves Saint Laurent, con modelle bellissime e certo un mucchio di soldi.
E diari di viaggio.
E nudità: formale, letterale, metaforica.
Molte fotografie sono attaccate alle pareti con spilli.
Due donne stanno, nude e dimostranti, di fronte alla Gioconda.
Molte foto dell’artista, nudo o quasi.
Adagiato su un fianco, con in mano molti palloncini colorati: è l’immagine simbolo di questa mostra.
Grande foto in bianco e nero di lui nudo e sbevazzante in piedi vicino alla tomba del padre morto suicida.
E formati molto diversi: verticali, orizzontali, opere molto grandi e altre molto piccole, appuntate con spilli o incorniciate.
E soggetti proteiformi: persone, luoghi interni ed esterni, riferimenti alla Storia dell’Arte e alla propria vita, tramite immagini e parole.
Sintesi di tutto questo, un curioso progetto di ri-creazione delle proprie opere più note attraverso la figlioletta di pochi mesi: ironia e autobiografia e, ancora, centralità del linguaggio.
Ora basta che senta nitrire i cavalli e schioccare le fruste e già mi prende una trepidazione amorosa: a Ipazia devi entrare nelle scuderie e nei maneggi per vedere le belle donne che montano in sella con le cosce nude e i gambali sui polpacci, e appena s’avvicina un giovane straniero lo rovesciano su mucchi di fieno o di segatura e lo premono con i saldi capezzoli.
Poi (o prima, o durante) c’è tutto il pubblico milanese della domenica mattina in Triennale: giovani papà barbuti con maglioncini finto-casual certo non a buon mercato, giapponesi fotografanti, gruppetti di amiche cultural-chic.
E quando il mio animo non chiede altro alimento e stimolo che la musica, so che va cercata nei cimiteri: i suonatori si nascondono nelle tombe; da una fossa all’altra si rispondono trilli di flauti, accordi d’arpe.
E poi c’è un Libro delle Avventure, Engeki Quest, commissione speciale di FOG Performing Arts Festival, che rimanda alla pratica del camminare come atto estetico, dunque conoscitivo, e rimanda al fuori, al Grande Teatro del Mondo, e mescola le Passeggiate Dadaiste e le Derive situazioniste, le Mappe per perdersi di Yoko Ono e le esperienze raccontate e rilanciate da Francesco Careri nel suo seminale Walkscapes.
Su questo tornerò, la prossima volta che dalla mia campagna tornerò a Milano.
Per fortuna è veramente un viaggio immenso.
Certo anche a Ipazia verrà il giorno in cui il solo mio desiderio sarà partire. So che non dovrò scendere al porto ma salire sul pinnacolo più alto della rocca ed aspettare che una nave passi lassù. Ma passerà mai? Non c’è linguaggio senza inganno.
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[ le parti in corsivo sono la descrizione di Ipazia, da Le città invisibili di Italo Calvino, 1972 ]
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