Aspettando Colpi di Scena 2024, ricordiamo Colpi di Scena edizione contemporaneo 2023

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In attesa del prossimo appuntamento di Colpi di Scena, la storica biennale di teatro per ragazzi e giovani che si terrà a Forlì dal 17 al 20 giugno 2024, ricordiamo qui alcuni momenti salienti della seconda edizione di Colpi di Scena – sguardi nel contemporaneo, che si è svolta a Forlì, Bagnacavallo e Russi, dal 26 al 29 settembre 2023.  A cura di Accademia Perduta/Romagna Teatri e ATER Fondazione, la rassegna si è distinta per la notevole varietà di stimoli e proposte, di sguardi che spesso si incrociano e si (con)fondono in una polifonia atta a raccontare il nostro tempo sfilacciato e frammentato.

Difatti, il proposito degli organizzatori è stato di mettere a disposizione degli operatori culturali una “vetrina” delle più interessanti voci del panorama artistico emergente e ciò è avvenuto durante quattro giorni di full immersion teatrale, gestito in maniera impeccabile dallo staff di Accademia Perduta. È stato cosi possibile assistere a ben 19 nuove produzioni di prosa contemporanea di cui 10 in anteprima o prima nazionale, oltre a un ormai consolidato momento di incontro, curato da Renata M. Molinari che si è messa in ascolto di tutte quelle figure che compongono il delicato ecosistema teatrale, illustrando per esempio come un progetto artistico possa raggiungere la società, grazie al complesso (e spesso complicato) lavoro di chi opera nella filiera culturale. Si è parlato anche di tempi di gestazione, del concedersi il giusto tempo, dell’importanza del linguaggio che cambia la percezione del mondo, dell’ipertrofia del bando…

“Colpi di scena” è preziosa occasione di incontro, ma è anche vivere i luoghi dove l’arte accade e molto spesso sono gli stessi luoghi a infondere un connotato particolare e qualche volta indimenticabile alle fuggevoli esperienze artistiche vissute nell’irripetibilità del hic et nunc. Come non ricordare dunque quello spazio straordinario, l’ex deposito delle corriere ATR di Forlì oppure il Teatro Piccolo, il “nido”, l’anima che racchiude la storia stessa di Accademia Perduta, che in occasione del festival si è presentato completamente rinnovato, grazie a un restyling esterno e interno (Sara Rossi ripercorre la storia di questo teatro e del suo contesto urbano nel suo libro, Perle di periferia. Storia di un quartiere di provincia e del suo Piccolo grande Teatro), e ancora, il Teatro Comunale di Russi, uno tra i tanti piccoli teatri all’italiana, diffusi capillarmente sul territorio romagnolo a formare un patrimonio culturale inestimabile, che va tutelato.

“Costruendo sotto le nuvole, dediti alla chimera” (da una lettera di Bruno Schulz a Witold Gombrowicz)

Passando agli spettacoli, molto spesso il filo conduttore di ciò che accade in scena (e con molta probabilità anche in platea) rimanda a una solitudine onnivora, a vuoti incolmabili, a mondi lacerati tra desiderio di incontro e comunicazione e il continuo deragliare nell’incomunicabilità che spesso diventa puro urlo o, al contrario, perdita della parola, e come tale incapace di approdare a una qualsivoglia risposta. Nello stesso tempo però, non possiamo ignorare l’insita fecondità di questa profonda solitudine che, nelle parole di Bruno Schulz «è il reagente che provoca la fermentazione della realtà, il precipitato di figure e colori».

4000 miglia, drammaturgia di Amy Herzog, portato in scena dal Centro Teatrale MaMiMò sotto forma di estratto di 60 minuti, riflette sul tema dell’incontro/scontro intergenerazionale. I protagonisti, il ventunenne Leo e la nonna Vera, comunista novantunenne, si ritrovano a vivere sotto lo stesso tetto per un certo periodo e questa insolita e imprevista convivenza porta gradualmente alla scoperta di punti di contatto, di affinità e complicità. Nelle parole della regista, Angela Ruozzi, «sono due solitudini che si incontrano e si lasciano consolare a vicenda (…) sfiorando, senza retorica, il tema del “prendersi cura reciproco”». Si riflette sul tema dell’invecchiamento e su quello della crescita, con leggerezza e ironia. Bravissimi gli attori, sinceri e affiatati.

Il nuovo lavoro della giovane compagnia bergamasca Les Moustaches, in co-produzione con Società per Attori e Accademia Perduta/Romagna Tetari, I cuori battono nelle uova, è tutto incentrato sul tema della maternità. In scena tre donne, con tre immensi pancioni, non tanto in dolce quanto in isterica attesa. Si inseguono, corrono, saltellano, si contorcono, si toccano le rispettive gigantesche prominenze, uova in procinto di finire strapazzate per tanto, ininterrotto sbraitare. La scena è dominata da un’immensa culla corredata da una inquietante giostrina – tutto appare sovradimensionato, grottesco e tragicomico. Le tre donne simboleggiano anche tre modi di vivere e concepire la gravidanza e l’attesa di un figlio (dall’ostilità alla beatitudine celestiale all’angoscia per una perdita prematura). Più che la maternità, ciò che invocano con i loro corpi e i loro ruggiti le tre donne in scena è la forza animalesca e travolgente della Natura, la sua volontà di (ri)generazione infinita attraverso corpi mortali e transeunti.

Leggiamo nelle note di regia: «I cuori battono nelle uova è un amore disperato, un vuoto incolmabile, un’esplosione di gioia. I cuori battono nelle uova è un inno alla vita».

tutto un ripetersi e ripetersi e tutto una sola volta e mai più

Il grande vuoto, il nuovo spettacolo di Fabiana Iacozzilli, produzione Cranpi, La Fabbrica dell’Attore-Teatro Vascello, La Corte Ospitale, Romaeuropa Festival, presentato in anteprima, colpisce per lo struggente addentrarsi in quella dimensione del tutto senza tempo (o fuori dal tempo) di una mente colta in pieno disfacimento, a seguito di una malattia neurovegetativa. È la mente di una vecchia madre, che continua a ricordare incessantemente gli stessi ricordi, a compiere gli stessi gesti, seguendo una precisa geometria della rimemorazione e dei movimenti. Attorno a lei ci sono i figli, pieni di premure ma che controllano a stento la propria angoscia dinanzi allo spettacolo del suo ineluttabile decadimento.

Con tanta parte della vita ormai dimenticata come faccio a sapere quando tutto è incominciato, tutte le varianti di uno stesso tema, che una dopo l’altra intersecandosi per tutta la vita, pisciano il loro veleno finché soccombi. In un certo modo anche le cose vecchie sono nuove, non due respiri uguali, tutto un ripetersi e ripetersi e tutto una sola volta e mai più. (Samuel Beckett, Da un’opera abbandonata).

Tu (non) sei il tuo lavoro di Rosella Pastorino, produzione Accademia Perduta/Romagna Teatri, visto in prima nazionale, è uno spettacolo a due voci, che riflette sul tema scottante del lavoro e delle sue insidie, sulla bellissima menzogna che continuiamo a raccontarci (dovrebbe renderci liberi) e sull’infinita gamma di perversioni contemporanee che hanno trasformato il lavoro e la sua supposta dignità in una chimera: stage, formazione continua, specializzazioni, sostituzione per maternità, contratto a termine, contratto a progetto… siamo in fin dei conti dei corpi  soggiogati dal lavoro, erosi dalla fatica fisica e psichica di un lavoro che altro non è che trappola e nuova forma di schiavitù. Giovani che pensavano di entrare nel cosiddetto mercato del lavoro in maniera quantomai indolore, come sarebbe stato normale dopo l’accumulo insensato di illusori certificati di competenze, corsi di specializzazione e master dai costi sempre più esorbitanti (che ad altro non serve se non ad alimentare l’altra speculare menzogna, quella del mercato della formazione), si ritrovano invece disoccupati e respinti ai margini del sistema. A tal proposito, ricordiamo le profetiche parole di Ceronetti sulle eterne esaminande quarantenni:

Contraccezione scientifica, lavoro d’ufficio, di scuola, di banca, di teatro, nomadismo giovanile, e, accanto a noi, queste nostre compagne nevrotiche, figlie di spleen architettonico e di smog atmosferico, frigidule, anoressiche, stravolte, immerse nei divorzi e nei concorsi. Non c’è una donna, tra i quindici e i quarantacinque, che non stia sempre «preparando un esame»… Sono sempre tra esami, o esami si fanno fare, clinici. Esame è una delle parole più usate, oggi, dalle donne: nota per il satirico. Giovenale conosceva le gladiatrici, le grammatizzanti, le dipendenti dagli astri, le flagellatrici di schiene innocenti, le isidiane, le cibeliane, le nazzariane, non le sempre esaminande, le iscritte a tutti i corsi, le cornucopie degli analisti. (Guido Ceronetti, La lanterna del filosofo)

Ci guardiamo intorno e vediamo solo corpi e menti del tutto svuotati, annichiliti, erosi dal lavoro e da una instabilità programmatica, quella del precariato eterno delle nuove generazioni – le stesse che sono condannate a portare avanti il nulla intrinseco, il nichilismo radicale sul quale si regge la società capitalistica dei consumi. Un nichilismo che ha annientato ormai da tempo la stessa coscienza dell’essere. Ricordava Vitaliano Trevisan, colui che ha messo il dito nella piaga del lavoro con lucidità insuperata (leggetelo a partire dal suo capolavoro Works), che non dobbiamo mai dimenticare chi siamo: tu fai il tuo lavoro, tu non sei il tuo lavoro, appunto!

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