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Aspettando Godot è un testo teatrale di Samuel Beckett, uno dei pilastri del Teatro dell’Assurdo. La storia, se di storia si può parlare, è questa: Vladimiro ed Estragone, ai piedi di un albero, attendono l’arrivo di un certo Godot. Arrivano strani individui e arrivano messaggeri, ma Godot mai. Alternando battute comiche, discorsi religiosi, riflessioni esistenziali e pensieri sul suicidio i due continuano ad aspettare, forse in eterno.
L’autore non ha mai voluto rilasciare commenti interpretativi della sua opera, tanto che in molti si sono accaniti a cercarne i significati. Non solo, molti ne hanno messa in scena una loro versione, dando loro stessi un significato personale ad Aspettando Godot.
Tra questi lavori si colloca l’ultima fatica di Theodoros Terzopoulos, regista greco dalla lunga carriera, fondatore della compagnia Attis Theatre e direttore di accademie e di festival. Collaborando con ERT e Fondazione Teatro di Napoli ‒Teatro Bellini, il regista ha messo in scena il suo Aspettando Godot, con Stefano Randisi ed Enzo Vetrano nei panni di Vladimiro ed Estragone.
La creazione di Terzopoulos sul testo di Beckett ha dei caratteri di innovazione, che lo portano in una direzione nuova rispetto all’opera originale o ad altre rappresentazioni che mi è capitato di vedere.
Partiamo dal descrivere scenografia, luci e costumi, che portano la firma dello stesso Terzopoulos.
Quattro pannelli quadrati neri definiscono in modo geometrico lo spazio. Distaccandosi, sollevandosi, abbassandosi, aprendosi, rivelano uno spazio composto di un sopra e un sotto e diviso in due linee: una orizzontale, dove si muovono quasi sempre Vladimiro ed Estragone, come vincolati a una schiacciante condizione terrena, ed una verticale, sulla quale irrompono gli altri personaggi e dalla quale scendono alcuni elementi di scenografia, anch’essi verticali (la lunga fila di coltelli alla fine del primo atto e l’altrettanto lunga fila di libri alla fine del secondo).
Quando sono vicini o equidistanti i quattro pannelli disegnano una luminosa croce greca.
Davanti a tutto questo impianto, come a voler rispettare, seppur al minimo, le indicazioni nel testo di Beckett, c’è un bonsai, piazzato sul proscenio.
Valdimiro ed Estragone, come dicevamo prima, si muovono quasi sempre sulla linea orizzontale, posta a mezza altezza, ora supini, ora carponi, come schiacciati dalla scenografia. A un certo punto arrivano perfino a lasciar sbucare soltanto le teste. I due interagiscono tra loro molto poco con lo sguardo e molto con il contatto fisico, accarezzandosi, cercando il tocco delle mani, dei visi.
Sulla linea verticale, invece, compaiono gli altri personaggi. Pozzo, ad esempio, entra, la prima volta, squarciando una tela con un coltello. Lucky raggiunge il proscenio carponi, o strisciando, fino al bonsai. Il primo messaggero arriva e infila il viso in una croce bianca che scende dall’alto.
Tutte queste entrate in scena avvengono con movimenti lentissimi, esasperanti, in un moto dal buio alla luce, spesso dividendo Vladimiro ed Estragone, a volte avvicinandoli.
I costumi dei personaggi sono laceri, strappati. C’è sangue che ricopre i volti, i vestiti, gli oggetti (libri e coltelli).
La visione di queste geometrie quattro volte monolitiche, asfissianti, il sangue, i coltelli, la pesantezza dei movimenti, gli spasmi di Lucky nel suo monologo, sono stati efficacissimi nel farmi provare angoscia, soffocamento, disagio.
In altre versioni dell’opera, come nella lettura del testo, questa pesantezza è decisamente meno marcata. C’è lo straniamento, la confusione, il dubbio, il dramma (non a caso Beckett scrive subito dopo la seconda guerra mondiale, in un periodo critico per ogni certezza), ma c’è anche una componente comica che Terzopoulos sembra aver voluto eliminare. Le battute nella sua messa in scena sono pronunciate sempre con forza drammatica, caricandole, sputandole fuori a fatica, annullando qualsiasi ritmo comico. I personaggi di Beckett sembrano quasi due clown, quelli di Terzopoulos dei feriti, colti nell’agonia.
Un altro aspetto rilevante è l’esasperazione del meccanismo beckettiano dell’andiamo e non vanno. Mi spiego: nel testo di Aspettando Godot compaiono tantissime battute che invitano a compiere un’azione specifica, ma la didascalia o la parentetica successiva (o precedente) danno indicazione di non compiere quell’azione.
Qualche esempio:
“VLADIMIRO (sbalordito) Un fosso! E dove?
ESTRAGONE (senza fare il gesto) Laggiù.”
“ESTRAGONE Io me ne vado. (Non si muove).”
“ESTRAGONE (restituendoglielo) Vado a cercare una carota. (Non si muove).”
E il finale è proprio una di queste contraddittorie coppie battuta/didascalia:
“VLADIMIRO Allora andiamo?
ESTRAGONE Andiamo.
Non si muovono.”
Un meccanismo efficacissimo, assurdo, per comunicare l’impossibilità di cambiare la propria condizione, che mette in risalto un bisogno intrinseco che non può essere soddisfatto e che ritengo centrale nell’opera di Beckett.
Terzopoulos prende questo meccanismo, l’andiamo e non vanno, e lo porta all’estremo, estendendolo a quasi tutte le azioni dei due personaggi, anche minime.
Ad esempio nel finale, nell’opera di Beckett uno dei due personaggi si sfila la cintura e gli cascano i calzoni. Nella messa in scena di Terzopoulos nulla di tutto questo avviene, ma le battute restano le stesse:
“VLADIMIRO Fa’ vedere lo stesso. (Estragone si slaccia la corda che gli regge i pantaloni. Questi, che sono larghissimi, gli si afflosciano sulle caviglie. Tutti e due guardano la corda). In teoria dovrebbe bastare. Ma sarà solida?
[…]
VLADIMIRO Tirati su i pantaloni.
ESTRAGONE Già, è vero. (Si tira su i pantaloni. Silenzio).”
Queste battute sono pronunciate dai due protagonisti distesi schiena a terra. Niente corda, niente pantaloni che cadono.
Ogni legame tra parola e azione viene troncato. Parlare diventa un’espressione dei corpi, materiali anche nella loro sonorità, che non esprimono concetti ma significano con la loro presenza.
Ritengo che, alla fine, la specificità dello spettacolo sia racchiusa qua: in un’esigenza di rendere il tutto più terreno e materico possibile. Dalla scenografia schiacciante e grondante sangue, all’accentuazione del tragico, eliminando il riso, fino all’esasperazione dell’andiamo e non vanno.
In Beckett si sente il bisogno di essere salvati, anche se è un’attesa che sembra infinita e vana. E il cuore del testo è un interrogativo esistenziale senza risposta. In Terzopoulos si sente il dolore, legato ad una condizione umana terrena, di sangue, di corpi, di spasmi.
Ed è un dolore che supera qualunque domanda e si configura esso stesso, quasi, come una risposta.
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