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Sembra una curiosa coincidenza che proprio nei giorni della nomina ufficiale di Luca De Fusco a prossimo direttore del Teatro Nazionale di Roma sia in programma Appuntamento a Londra, produzione del Teatro Stabile di Catania, dove De Fusco era direttore fino a poche settimane fa. Dopo le polemiche, le firme, le liste, i cortei, i comitati, l’assedio al Teatro Argentina con tanto di Polizia schierata a difendere lo stabile, al Teatro India (con Pasolini che ci guarda sempre interdetto e stranito e il gazometro è bardato da un bel tricolore che fiammeggia alto nella notte) va in scena il testo del premio Nobel Vargas Llosa per la regia pirotecnica di Carlo Sciaccaluga. Un uomo e una donna si incontrano in una camera d’albergo, hanno un passato che li lega ma il tutto è misterioso se non nebuloso e ambiguo, a tratti sconcertante. Una vicenda tutta giocata in un interno, fisicamente, e nell’interiorità psicologica delle dinamiche che si aggrovigliano ad ogni scena, una messinscena agita fortemente, per creare un pathos sublime e potente quasi rancoroso, sul suono (a cura di nogravityformonks) e sulle luci, elementi dosati sapientemente per suscitare un clima di allarme e sospetto, di pericolo, apprensione continua, inquietudine da tagliare a fette. I suoni sono sinistri mentre il nostro Lui (Luigi Tabita robusto e intenso), ora deciso poi infinitamente fragile, sembra volersi togliere la faccia, asportarsi la maschera, scartavetrarsi quel volto che forse non riconosce più appartenergli.
Il dramma psicologico entra nel vivo, come un coltello infuocato nel burro, quando alla porta si affaccia l’ignoto, l’imprevisto inatteso che rompe lo status quo e irrompe nella vita dell’uomo d’affari che appare come tutto un successo. In questa versione italiana i nomi sono stati cambiati, da Raquel e Chispas sono diventati Maddalena Merisi, in riferimento secondo noi da una parte alla figura biblica (il suo diminutivo in inglese diventa Mad inteso come pazzo) mentre il cognome potrebbe trovare sponda in quello tormentato del Caravaggio, e Luca Croce perché ha un bel fardello da portarsi sulla schiena da una vita. Luca era amico di Nino che non vede più da venticinque anni dopo che il secondo aveva cercato di baciarlo in doccia in palestra e il primo lo aveva colpito. Scomparso, sparito, ha fatto perdere le sue tracce. E adesso spunta questa bellissima donna (Lucia Lavia sempre elegante in un recitativo molto sottolineato) che dice di essere la sorella di Nino. Ci sono velocità differenti nella recitazione: lei è più slow come se uscisse da un torpore, come se si risvegliasse da un bozzolo per poter nuovamente tornare a volare. La narrazione subisce degli scarti, degli intoppi, delle frenate: alcune scene si ripetono in loop, in piccoli rewind, come fossero un disco rotto della memoria mentre altre sequenze vengono interrotte da inserti provenienti dal passato, da quello che è accaduto come da quello che sarebbe potuto accadere o che avrebbero voluto che accadesse in una sorta di Sliding Doors.
La donna è lo stesso Nino che si è operato: quel pugno in doccia è stato lo spartiacque per entrambe le esistenze, Nino ha finalmente capito cosa voleva essere mentre Luca ha girato a vuoto facendo soldi (mi sono stordito di lavoro per non pensare che ero solo) sempre insoddisfatto sessualmente e interiormente, sempre alla ricerca di quel bacio che non aveva voluto. E’ un dramma dell’impossibilità ma anche delle infinite opzioni che il corso, e percorso, della vita ci mette a disposizione: ecco Luca e Maddalena fidanzati dopo l’operazione di Nino e la riassegnazione sessuale, ecco loro due che sono stati felicemente sposati, o quando sono stati amanti (con la casa a Sant’Ilario ricordando De André e la sua Bocca di rosa), ecco Luca e Nino colleghi con quest’ultimo che non si è mai sottoposto a nessuna operazione, o ancora Luca che colpisce Nino con un peso da gym uccidendolo. Possibilità, porte, eventualità, evenienze, casi.
Il boccascena è usato da entrambi i protagonisti per confessarsi e aprirsi, per togliersi di dosso la recitazione, per confrontarsi con il personaggio, per ripulirsi, raccontarsi ulteriormente andando ancora più a fondo nel loro intimo viscerale recondito. Il pugno dato e il bacio non dato sono i due elementi sul piatto della bilancia: la presenza pressante dell’assenza e la mancanza pesante dell’accaduto. Le luci (Gaetano La Mela) esaltano questo stato febbrile, onirico e poetico, metafisico, dove il sogno si mescola alla realtà perdendone i contorni, i confini in una osmosi che tutto sbiadisce, scolora, deraglia. Il letto (le scene sono di Anna Varaldo) è un cubo di vetro che diventa gabbia, bara e teca dove sentirsi cristallizzati, prigionieri o protetti in questo Vaso di Pandora che si è spalancato, in questo abisso tormentato dischiuso, in questo dolore ricordato, in questi tagli lacerati e mai rimarginati. E’ un incubo trasognante alla Cronenberg questa ferita che non ha mai smesso di sanguinare, un viaggio agli Inferi psichedelico e allucinato alla Lynch, un thriller psicologico alla Hitchcock.
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