Esplorando nuovi confini, con Blewitt

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«Quello che non puoi nascondere, mettilo in evidenza»: questo vecchio detto, in uso nel teatro d’una volta, mi torna utile nell’apprestarmi a motivare queste brevi note.

Quello che non posso nascondere è che io, di musica, non so nulla.

Da un punto di vista tecnico, dico.

Il teatro è il mio ambito di studio e scrittura.

E la danza.

E le arti visive.

Di musica sono un discreto fruitore -cantautori e musica barocca, soprattutto- ma a parte un paio di corsi entusiasmanti negli anni del DAMS, non ho sviluppato alcuna vera competenza analitica.

Ecco che dunque, con un po’ di tremore, mi appresto a dire qualcosa sull’opera prima di questo folgorante trio, Blewitt, composto da Stefano Proietti al pianoforte, Oscar Cherici al basso elettrico e Gian Marco De Nisi alla batteria.

Exploring New Boundaries, è il titolo, ed è stato pubblicato da Neuklang, ADA Music (Warner Music Group) e Verlag.

Tremore: il non-lavoro critico, ancorché oggi in Italia non pagato, dunque di fatto puro volontariato culturale, comporta la smisurata responsabilità del prender parola (Focault docet).

Ci provo dunque: se non mi sarà possibile dir nulla di intelligente, almeno farò attenzione alla punteggiatura.

La prima cosa che penso, incontrando questi dodici poderosi brani, è: nomen omen.

L’esplorazione di nuovi confini indicata nel titolo dà luogo, anche in un orecchio grossolano come il mio, a una vertiginosa giostra di mondi sonori, intrecciando «la tradizione e la letteratura pianistica con le ritmiche contemporanee, dal neo soul alla musica etnica mediterranea, dall’avantgarde music al jazz tradizionale», come trovo scritto nella lettera di Rosario Moreno, patron di BlueArt Promotion che mi ha gentilmente invitato a questo ascolto e a questo piccolo viaggio di scoperta.

«Stare molto vicino alle cose», ci insegna(va) la fenomenologia critica.

Le cose da approssimare, qui, sono in primis gli accadimenti acustici che quest’opera offre all’ascolto.

«Forme sonore in movimento»: così nell’Ottocento Eduard Hanslick definiva la musica.

Analogamente, nessun contenuto referenziale esplicito, in quest’opera.

Alla quale, però, è stato dato un titolo.

Programmatico, oso ipotizzare, ancorché non a programma.

Ecco dunque che le cose a cui provare a star vicino aumentano: questi suoni. E questo titolo.

Exploring New Boundaries.

Esplorare nuovi confini.

 

 

ESPLORARE

Questo verbo avventuroso, mi dico, ha a che fare con l’andare là dove non si conosce. Ecco l’invito, anche ai neofiti come me: tuffarsi in questi molti mondi, lasciarsi attraversare.

Forse capiterà, come a me, di non riuscire a tener ferma la gamba, di battere il piede tenendo il ritmo.

O di allungare il respiro, in alcuni passaggi rarefatti, sospesi.

O di ricordare. Desiderare. Provare allegria e nostalgia, insieme.

Soprattutto, in diversi momenti, drizzare le orecchie per cogliere sfumature.

Fare più attenzione, insomma, all’evento sonoro che sta accadendo.

Meglio: a cui si sta partecipando.

Anche se è un CD quello che sta suonando, e non persone dal vivo, la precisa sensazione è sentirsi parte di qualcosa che succede (di un fatto, per dirla con Deleuze).

Andar verso un luogo proteiforme e ignoto (qui i panorami cambiano di continuo, non c’è mai tempo di abituarsi, men che meno di annoiarsi), affidandosi a tre persone che lo sanno fare, quell’andare.

Ad ascoltare e riascoltare le impennate e le radure, i crescendo improvvisi e le dolci reiterazioni, i passaggi distesi e i molti grappoli di note intrecciate (quante cose posson fare, tre strumenti che davvero si incontrano!) vien da fidarsi, vien da farsi portare.

NUOVI

Dei dodici brani (per quasi ottanta minuti di capriole), dieci sono originali e due son rivisitazioni. Non che io colga la differenza o le scelte stilistiche di tali riletture, sia chiaro.

Ma vorrei ricordare un’altra cosa, a tal proposito: nella cultura occidentale contemporanea, l’originalità è indice di artisticità.

Basta spostarsi di qualche chilometro e, si sa, non è più così: penso ai molti mondi del teatrodanza indiano, ad esempio, o al balletto classico europeo, in cui l’abilità sta innanzi tutto nella millimetrica adesione a un modello.

Basta spostarsi di codice, mi dico: sperimentando il salvifico spaesamento dato dalla mancanza di riferimenti e paragoni, si è di colpo di fronte a un’esperienza a suo modo aurorale, a un incontro letteralmente nuovo.

CONFINI

Geografici, anagrafici, certo. E linguistici: del medium che si abita.

La parola confini mi fa pensare a limiti.

Limiti mi fa pensare a possibilità.

Quanta sapienza nei mille intrecci che possono fiorire solamente da una rigorosissima disciplina nell’apprendere a suonare questi strumenti.

E poi a farlo insieme.

E poi a comporre, e a registrare, e, e, e.

E: è impresa corale, sempre, l’arte.

Anche un monologo in teatro, per dire, è sempre e comunque un’avventura del noi.

E allora mi piace concludere questa nota sconclusionata e grata con una immagine in cui un po’ di questo noi appare.

Buon ascolto, se vi va.

 

 

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