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Questi fantasmi, diceva Eduardo. E proprio da queste apparizioni, da queste epifanie, da queste sedute spiritiche, da questi affioramenti dal passato e dalla memoria che il drammaturgo Michele Santeramo ha scritto alcuni monologhi originali (raggruppati appunto nel titolo Fantasmi) su grandi figure teatrali. Come ruoli usciti sopravvissuti dai Sei personaggi in cerca d’autore. In questo pacchetto troviamo Riccardo III, che sarà affidato a Oscar De Summa, Bastianazzo dei Malavoglia, che sarà interpretato da Fabrizio Ferracane. E poi da Rostand ci sono stati Cirano–Silvio Orlando e Cristiano–Rocco Papaleo e ancora Rossana–Sonia Bergamasco, o ancora Madre Coraggio– Laura Marinoni e Ofelia– Lucia Lavia. Un progetto composito e articolato nel quale le singole pièce-riflessioni sono autonome e indipendenti dalle altre. La costante è la provocazione e il dialogo con il pubblico e l’occasione ha fatto sì che qualcuno, avendo bisogno di domande, li abbia rievocati, riportati in vita per scardinare temi e argomenti, per cercare di sviscerare, per andare a fondo e capire, certamente non per avere soluzioni semplici ma per toccare aspetti insondabili, per cercare sponde, per conoscere meglio le sfumature e le sfaccettature, contro il pensiero unico che genera mostri. Santeramo affida il testo all’attore che ne fa carne propria, come in questo caso con Gennaro Jovine, il personaggio estrapolato da Napoli milionaria sempre di De Filippo.
E’ bianca la faccia dell’energico Arturo Scognamiglio (la produzione è della sua compagnia Unaltroteatro, attiva dal ’17 insieme all’attrice Lorenza Sorino, con sede al Cinema Auditorium Zambra di Ortona) e la nebbia avvolge la sala come se fosse stato scoperchiato il sarcofago del Tempo e della Verità. Due i grandi temi che escono prepotenti dalla drammaturgia: la stupidità della guerra da un lato e il bivio esistenziale tra l’essere fesso (come viene definito Gennaro) e il rispettare le regole o essere cinici e cattivi e campare sulle spalle dei poveri derelitti. Il fesso è lo stesso Jovine che si è fatto due guerre, la furba è la moglie Amalia che si è arricchita, mentre il coniuge rischiava la vita al fronte, con il mercato nero. Scognamiglio si aggira tra le poltroncine e interroga la platea (nella luce accusatoria), guarda negli occhi lo spettatore spalle al muro, lo costringe non tanto alla risposta quanto a porsi l’interrogativo, a chiedersi da che parte sta, a prendere posizione, a tirarsi fuori dall’indifferenza. L’Umanità ha perduto contro l’essere umano è il perno attorno al quale ruota il testo dicotomico tra il collettivismo e l’individualismo, tra l’amore e l’empatia per gli altri e l’egoismo bieco.
E’ una questione morale e una questione sociale, etica e materiale, da una parte l’ingenuo Gennaro, buon cristiano (la bontà non è da molto tempo un valore positivo, si preferisce l’astuzia e l’arrangiarsi) dai sani e saldi principi e dall’altra la moglie con il suo motto L’egoismo è necessario, una sorta di Mors tua vita mea in refrain continuo spazzando via e calpestando chiunque si frapponga al suo progetto di far soldi, di potere, di accumulo. Gennaro invece si chiede: Io che ci faccio qui (che è anche il titolo-grido della trasmissione del giornalista Domenico Iannacone), si sente sempre fuori, alienato, altro, altrove, diverso da quel sistema che non comprende, da quella filosofia di vita gretta e ottusa, piena di odio e rancore verso i propri simili. Onestà e immoralità, rettitudine e corruzione, integrità e malafede sono valori che non si possono conciliare. Il dubbio amletico tra rubare sporchi nell’anima del malaffare e morire di fame ma con la coscienza pulita. La differenza tra chi i morti li ha visti nel fango della guerra e chi si è incattivito a casa indurendo il proprio cuore tra traffici e sotterfugi. Il fantasma di Gennaro è stanco e sa di essere perdente in questa contesa dialettica, è consapevole che i suoi argomenti hanno meno appeal di quelli della moglie, qui sempre silente.
Gennaro ci confessa che è apparso nuovamente tra noi ma che questa sarà l’ultima volta, l’ennesima, fino alla prossima volta (ogni ultima volta è la penultima perché il suo buon cuore spera sempre di portare la luce e la ragione) perché ancora la notte non è passata (dall’iconica frase ha da passà a nottata) e il buio dell’intelletto ancora incombe pesante e solido. E’ disilluso che qualcosa cambierà con il suo nuovo ritorno tra gli uomini (come Messia), tanto gli uomini non capiscono e continuano a perpetrare i medesimi errori. La cappa è pesante, la redenzione lontana, il perdono utopistico. Jovine, in dissolvenza, ci schiaffeggia dolcemente con la sua voce arresa: Voi prima fate la guerra poi chiamate me per dirvi cosa è la guerra. Poi il suo grido silenzioso senza molte aspettative sul futuro: La speranza sono i fessi. Se nel mondo ci fossero solo fessi sarebbe senza pace ma almeno sarebbe senza guerra. Un testo necessario. Ieri, oggi e domani.,
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