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Credere, obbedire, combattere
Nel 1961 lo psicologo Stanley Milgram lavora all’Università di Yale, Connecticut. Tra i suoi temi di studio, il costrutto dell’obbedienza. Nella sua testa, una domanda: fino a che punto può spingersi la sottomissione all’ordine eterodiretto, quando tale autorità è in contrapposizione a precetti etici personali o propri della cultura di appartenenza? Il professore decide di verificare la dislocazione di questo confine con un esperimento che sarebbe passato alla storia. Nel set che prepara tre persone: uno sperimentatore, presentato come professore di biologia, un complice, istruito a comportarsi in un determinato modo, e un ignaro soggetto di studio.
Ciò che viene spiegato al soggetto di studio è che la ricerca verte sulla memoria, e su come questa risponda alle punizioni. Quello che dovrà fare sarà somministrare scariche elettriche di intensità crescente di fronte a eventuali errori del complice (che attende seduto e collegato a elettrodi) nell’apprendere serie di parole di difficoltà progressiva. A tal fine, gli viene consegnato un telecomando con un pulsante.
Il bottone non ha in realtà alcun effetto, ma il complice è istruito a sbagliare, in modo da elicitare l’erogazione delle scosse, e a mimare in risposta reazioni dolorose, da un leggero fastidio fino allo stordimento. A garanzia dell’autorità, lo sperimentatore/professore di biologia soprassiede tutte le fasi, sollecitando il soggetto a non disattendere alla sua missione, anche dinanzi alle proteste sempre più intense e alle espressioni (simulate) di sofferenza del complice.
L’ipotesi di partenza? Verificare se il soggetto di studio avrebbe obbedito alle incitazioni di una figura autoritaria come quella dello sperimentatore o avrebbe attivato la rivolta, rifiutandosi di vessare l’altra persona, empatizzando con il suo tormento. Il soggetto ha il telecomando in mano, certamente è sotto pressione, ma la scelta di schiacciare il pulsante è nel novero del suo libero arbitrio.
Risultati: su 40 dei soggetti testati 26 sono giunti a erogare la scarica elettrica di maggiore intensità, anche dopo una risposta di svenimento da parte del complice. Di quelle 40 persone, nessuna si è rifiutata di partecipare allo studio una volta venuta a conoscenza che la mansione sarebbe stata somministrare uno stimolo doloroso su un altro individuo in conseguenza di un innocente errore mnemonico.
Nel 1971, dieci anni dopo il test di Milgram, il professor Philip Zimbardo lavora all’Università di Stanford, California. Interessato alla psicologia sociale, decide di indagare quanto l’appartenenza di gruppo influisca sul comportamento dei singoli individui, sulla scia degli studi dell’inventore della psicologia delle masse Gustave Le Bon, per il quale nelle folle si attivano meccanismi di contagio e suggestione in grado di portare i singoli all’abbandono della razionalità e allo sviluppo di comportamenti antisociali.
Per testare la collocazione di questa linea di demarcazione Zimbardo seleziona 24 studenti, che suddivide nei gruppi guardie e prigionieri, e propone loro un gioco di ruolo di due settimane situato nel seminterrato dell’Università, trasformato per l’occasione in prigione. Ai partecipanti chiede di indossare divise con impresso un numero di identificazione, ai carcerieri consegna manganelli e occhiali da sole con lenti a specchio. Tutti vengono deprivati dei propri segni distintivi, sullo stile delle istituzioni totali. L’unica libertà? Una volta iniziato il gioco, autorganizzarsi.
Risultati: a metà della prima settimana, dopo un tentativo di fuga da parte del gruppo prigionieri, l’incremento esponenziale di episodi di sadismo da parte del gruppo guardie e il progressivo sviluppo di un collettivo senso di distacco dalla realtà, l’esperimento viene sospeso.
Quando parliamo di sokushinbutsu ci riferiamo al rituale buddhista di automummificazione, come via per raggiungere il Nirvana e sottrarsi all’eterno ciclo delle reincarnazioni. La pratica si è diffusa in Giappone, probabilmente dalla Cina, a partire dall’XI secolo.
Il monaco che decide di sottoporvisi deve attraversare tre fasi di mille giorni l’una, mirate, progressivamente, a ridurre la massa grassa corporea tramite: 1. esercizio fisico, 2. restrizioni alimentari (permessa l’ingestione solo di semi e corteccia di conifera), 3. assunzione di tea tossico, allo scopo di rendere il corpo velenoso per i microorganismi responsabili della putrefazione dopo la morte.
Chi non perisce prima, e possiede la determinazione necessaria per attraversare i tremila dì, diventa una sorta di mummia vivente, e negli ultimi giorni si chiude volontariamente all’interno di una cripta, nella posizione del fiore di loto. Il solo legame con l’esterno è una cannula che permette la respirazione. L’unico oggetto nella catacomba una campanella, da suonare ogni mattina per segnalare agli altri monaci il proprio essere ancora in vita.
Dopo mille giorni dall’ultimo rintocco la cripta viene aperta. Se il processo ha avuto successo, il monaco automummificato viene trasportato al tempio e venerato. In caso contrario, la cripta viene richiusa. In Giappone la pratica è stata proibita alla fine dell’800, e, da quel che si sa, risale al 1903 l’ultimo monaco che l’ha portata a compimento.
La via carceraria alla questione sociale
Non lo faremmo mai, vero? Infierire su di uno sconosciuto già in difficoltà per uno stupido errore cognitivo, identificarci per gioco in un aguzzino a tal punto da vessare una persona amica o collega, rinchiuderci a essiccare in un buco? Ma per favore! E invece, come abbiamo visto, queste sono azioni che altri esseri umani hanno praticato.
Dato che è possibile il realizzarsi di situazioni all’apparenza così controintuitive, nostro compito sarà verificare come agiscano le tecnologie che portano a infliggere dolore in risposta a una autorità, identificarsi come carnefici o vittime, attivare pratiche di reclusione. Dove possiamo posizionare il punto di enunciazione che ha avviato la costruzione dei saperi su isolamento e punizione come processi di espiazione, uniche risposte possibili alle minacce all’ordine costituito? E come si costruisce, nell’immaginario collettivo, la minaccia alla sicurezza?
La persona che abbiamo deciso di interrogare è Angela Yvonne Davis, attivista per i diritti civili e filosofa afroamericana. Nel 1970, dopo un periodo di latitanza, Davis viene incarcerata: una delle armi utilizzate per un attentato dalle Pantere Nere, movimento politico di liberazione della popolazione americana di origine africana, risulta intestata a lei, e negli Stati Uniti chi possiede un’arma regolarmente registrata è responsabile di ciò che con questa arma viene fatto, anche quando non è coinvolto in prima persona. Da questa esperienza, Davis sviluppa una profonda riflessione, che vale la pena tentare di condividere.
In gran parte del mondo, almeno occidentale, diamo per assodato che le persone giudicate colpevoli di reati gravi debbano espiare i propri delitti in prigione. Come abbiamo visto, sembriamo psicologicamente predisposti all’atteggiamento che Foucault concettualizzava come sorvegliare e punire, preferibilmente attraverso opere di confino. Abbiamo totale fiducia nel fatto che, estirpata la mela marcia dall’albero, le altre cresceranno sane e forti.
Nel novero di questa favoletta morale l’isolamento forzato dovrebbe garantire, per le persone criminali, la condizione per l’attivazione di percorsi controllati e certificati di riabilitazione. Al contempo, all’interno del dilagante discorso sull’insicurezza, saperle là, lontane e separate, è garanzia di tutela degli inviolabili diritti della cittadinanza. Cresciamo nella certezza che, se righeremo dritto, non saremo mai toccati dalla privazione della libertà. Soprattutto se abbiamo avuto in sorte il privilegio di essere persone bianche, mediamente istruite e non povere.
Nonostante la maggior parte dei reati violenti venga commesso tra le mura domestiche, la principale minaccia alla sicurezza pare provenire da un non meglio identificato fantanemico che si aggira per le strade intorno a casa nostra, minacciando l’integrità delle nostre persone e il decoro del quartiere nel quale viviamo. Tanto storytelling ipertrofico sul crimine ci ha ben inculcato lo spauracchio di divenire a nostra volta vittime di reato, nuovo soggetto politico idealizzato che ha preso il posto del contribuente (che era minacciato, invece, dalla cosa pubblica). Il nostro dovere di bravi cittadini e cittadine è diventato prevenire, quando non vendicare, l’attacco al potere (delle maggioranze) che il criminale perpetua.
Basta però guardarsi intorno, consultare qualche dato, applicare il buon senso alla valutazione del reale, per capire che, così come non si incontra un lestofante a ogni piè sospinto, anche nella soluzione dei problemi sociali la prigione non pare avere l’impatto rilevante che si vorrebbe far credere.
La regolazione punitiva dei poveri
Per affondare ancor di più nei meandri della questione, potremmo così porci un’altra domanda, cioè a che cosa serva realmente il carcere. Adottando un punto di vista ben preciso: in termini di vantaggi economici, per arginare una situazione all’apparenza problematica come “persona homeless”, è più redditizio costruire alloggi e attivare processi di sostegno, o destinarla coercitivamente alla prigione?
Un po’ come quando si nasconde la polvere sotto al tappeto, le tecnologie di reclusione, quando occultano il problema senza agire sulla causa, mostrano la loro funzione ideologica: ci sollevano dalla responsabilità di riflettere sugli impicci che affliggono le comunità depositando altrove i detriti del capitalismo, spedendo in cella l’eccedenza di forza lavoro scartata dell’economia del precariato e della disoccupazione. Il sistema è talmente efficiente da poter essere considerato in sé un programma sociale, quello più compiutamente realizzato dalle amministrazioni governative contemporanee.
Per avere la nostra completa complicità, due strategie vengono massicciamente utilizzate. La prima ha lo scopo di farci supporre che non esiste alternativa, il carcere c’è sempre stato e sempre ci sarà. Le immagini dei centri detentivi fanno parte della nostra esperienza di consumo paesaggistico e mediatico quotidiano, anche se sulla realtà dell’incarcerazione permane, invece, il più alto segreto. Sull’argomento ingurgitiamo film e serie tv, istantanee sulla stampa, e spesso ci passiamo davanti (qui a Parma è così) per fare una cosa banale come raggiungere un centro commerciale. Osserviamo le torrette di avvistamento, il filo spinato, le sbarre alle finestre, gli edifici rettangolari, pur non cogliendo alcun segno di vita. L’esistenza della prigione è parte integrante e naturalizzata del nostro paesaggio sociale.
La seconda, ancora più sottile, mina l’integrità della nostra stessa esistenza, diffondendo come ossigeno una corrente di pensiero sociologica neoconservatrice, elaborata a partire dagli anni ‘80, che si rifà alla cosiddetta teoria delle Broken Windows: se tolleriamo che i vetri di una struttura siano rotti senza intervenire, saremo immancabilmente condannati al degrado. Da qui l’idea della tolleranza zero, della necessità della punizione non solo come riabilitazione ma come intimidazione, l’ossessione per il declino sociale, la divisione delle città con l’identificazione di precise no-go areas (che prima o poi dovranno comunque essere gentrificate), la dilagante sensazione di insicurezza che predispone a intervenire non più solo sui fatti compiuti, ma sulla stessa minaccia che possano accadere. E, in un attimo, tutto ciò che si situa al di fuori del decoro diventa sospetto.
Ok, ce l’avete fatta: noi bianchi di classe media abbiamo paura, ci avete reso assolutamente pronti a sottometterci all’autorità per preservare la proprietà privata e il nostro privilegio. Il neoliberismo ha prodotto un’eccedenza di forza lavoro destinata alla povertà, e quei poveri, nelle loro case con le finestre sfasciate, in cos’altro dovrebbero impiegare il tempo se non bramando le nostre cose? Mentre noi ci recludiamo nelle yes-go areas del lavoro e del commercio, senza spifferi e con gli infissi chiusi per benino, voi vi vogliamo fuori dalle scatole, ben recintati, e anzi, a veder bene, da quei ghetti potreste anche tornarci utili.
Il dilemma è di quelli importanti: come si possono gestire, e magari capitalizzare, interi settori di popolazione resi superflui dal neoliberismo globale? Un antecedente illustre, da cui trarre ispirazione per il responso, è quello della schiavitù, cioè quel tipo di lavoro forzato basato su convinzioni razziste che ha ridotto, nel corso della storia, milioni di individui allo stato giuridico di proprietà.
E la soluzione è da cercare proprio quando nel 1865, dopo la Guerra di Secessione negli Stati Uniti, la situazione almeno là parve migliorare, e il 13° emendamento della Costituzione venne ratificato nel modo che segue: “La schiavitù o altra forma di costrizione personale non potranno essere ammesse negli Stati Uniti, o in luogo alcuno soggetto alla loro giurisdizione, se non come punizione di un reato per il quale l’imputato sia stato dichiarato colpevole con la dovuta procedura”. È la deroga del “se non come punizione di un reato” che risponde alla nostra domanda, permettendo a ciò che era uscito dalla porta di rientrare – appunto – dalla finestra, attraverso la creazione del complesso carcerario-industriale.
Tramite l’arresto di molti americani indesiderabili (non bianchi o redneck, per citare alcune minoranze razzializzate) a causa di crimini minori, come vagabondaggio, detenzione di minime quantità di stupefacenti, sex-working, si sono venute a creare schiere di detenuti affittabili anche da privati nei campi di lavoro forzato, in molti casi eredità delle vecchie piantagioni di schiavi. Le persone carcerate si ritrovarono impiegate come lavoratrici nell’agricoltura, nella manutenzione delle stesse prigioni, da compagnie private, per opere di pubblica utilità.
I giochi sono fatti: mentre le città vengono ripulite dai poveri, questi producono valore, anche per le industrie che traggono profitto dal campo in espansione della costruzione di nuove prigioni e dalla vendita di tutto ciò che serve per mantenerle in funzione, e lo fanno a costo quasi zero, perchè nella maggior parte dei casi, per il loro lavoro, non è previsto alcun compenso.
La democrazia dell’abolizione
E se non fosse quindi vero che i reati sono in aumento, che siamo circondati da pericoli, ma che la punizione incrementa solo perché è in atto un piano scientemente organizzato di ampliamento della sorveglianza, finalizzato a mantenere il meccanismo di cui sopra? Più sorveglianza significa più corpi destinati all’industria penale. Abbiamo visto come, negli Stati Uniti dell’800, abolendo la schiavitù le persone nere smisero di essere schiave, ma divennero criminali, e in quanto tali proprietà destinata al lavoro non più solo per altri individui, ma anche per lo Stato: il carcere è l’ambiente ideale per riprodurre legalmente forme di oppressione, come il razzismo.
Quindi, condizione sine qua non per la costituzione di una vera democrazia, non può che essere l’abolizione di tutte le istituzioni che promuovono il predominio di una maggioranza su una minoranza, e una democrazia come quella capitalista, incapace di svilupparsi senza lo sfruttamento di alcune categorie di esseri umani, pare proprio dover fare ancora molta strada.
Attenzione però, uomo bianco di classe media, a non cadere nell’ennesima trappola espistemologica eterodiretta: nella visione di Angela Davis abolire il carcere non significa smantellare le singole strutture, disinteressarsi dei reati e promuovere la legge dell’homo homini lupus. Indirizza piuttosto a modificare le condizioni sociali, politiche ed economiche delle quali la prigione è espressione in un preciso contesto, quello della democrazia capitalista. Significa comprendere che l’uso massiccio della detenzione è una conseguenza dell’assenza di opportunità educative, del sistema patriarcale che legittima la violenza, della povertà, in modo da trasformare l’abolizione in un processo di costruzione di un’alternativa da parte di una comunità di lotta, radunata attorno a precisi obiettivi.
Per una nuova idea di sicurezza, la priorità dovrebbe essere metterci al riparo dai saccheggi del neoliberismo globale, spostando l’interesse dalla tutela divisiva dei beni a istruzione e alloggi per tuttə, educazione affettiva, assistenza sanitaria, prevenzione della povertà, lotta alle oppressioni, eliminazione delle condizioni di privazione che instradano le persone verso la prigione. Solo invertendo la rotta che ci sta portando dallo stato sociale allo stato penale potremo annullare l’identità del carcere come alternativa alle pratiche assistenziali, rendendolo obsoleto.
Il compito è enorme, ma per iniziare proviamo a vedere, con un piccolo esempio, come già da questo weekend possiamo contribuire. È sabato mattina, e decidiamo di fare un giretto in centro. La settimana è stata pesante e ci meritiamo un premio, ancora meglio se tangibile, così andiamo a sbirciare qualche bella vetrina luccicante di una catena di fast fashion. E qui vi voglio: quando quel capo ci fa tanta gola, e porre un freno ai bisogni indotti pare impossibile, dicendoci che, tra l’altro, “costa pochissimo!”, una prima forma di abolizione passa da un’azione semplice come leggere l’etichetta prima di attivarne l’acquisto compulsivo, così da anteporre la relazione al possesso. Ci pare anche solo lontanamente che possa essere un esito dello sfruttamento che allarga la forbice tra ricchezza (di chi lo indosserà) e povertà (di chi l’ha prodotto)? No eh, noi non vogliamo essere complici, e se così è, allora, tenetevelo.
Nonnina mia, se mi fossi applicata di più al lavoro a maglia! Mi ci è voluto del tempo per capire cosa vale la pena di far permanere inossidabile, come il buon, vecchio, inalterabile Karl Marx. È da un centocinquant’anni che prova pazientemente a spiegarcelo: anche mentre scegliamo le merci stiamo costruendo rapporti sociali.
Letture
Angela Davis (2022), Aboliamo le prigioni? Contro il carcere, la discriminazione, la violenza del capitale, minimum fax
Toni Morrison (2013), Amatissima, Pickwick
Visioni
Sandow Birk
Prisonation: Visions of California in the 21st Century
Maximum Security: Visions of New York in the 21st Century
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