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ESAME DI REALTÀ
La mia dirimpettaia di pianerottolo si chiama Eleonora. È una bella ragazza castana, fa la personal trainer e durante l’alluvione ha perso l’automobile.
Al secondo piano abita, proprio sotto di me, una famiglia molisana: padre, madre, due figli adolescenti. Producono una quantità di decibel, nel loro esistere, come non ho udito mai: urli, tonfi, mobili trascinati, musica neo-melodica napoletana sparata a volume siderale, a ogni ora del giorno e della notte.
Di fronte a loro un signore con una cagnetta sempre incazzata.
Al primo piano, una coppia di anziani. Lei cura i molti fiori del nostro giardino.
Di fronte, ultima arrivata nel palazzo, una famigliola mite e riservata. Vengono dalla Romania. Sono gli unici che, nei mesi scorsi, hanno risposto al mio cartello con richiesta d’aiuto per portare fuori Emma, quando per molte e molte settimane son stato male e non sapevo come fare.
A tutti loro, qualche tempo fa, ho fatto qualche domanda.
È per il mio lavoro, ho spiegato.
Son persone pazienti, mi hanno risposto.
Avete mai sentito nominare Romeo Castellucci? E Virgilio Sieni? Emma Dante? Marco Baliani?
No.
Andiamo indietro: Carmelo Bene? Pina Bausch?
Capi scossati.
Ancora un po’ più indietro, e poi basta: vi dice niente il nome Bertolt Brecht? Isadora Duncan? E Antonin Artaud?
Niente.
Li ho ringraziati.
E ho pensato che c’è molto da fare.
Che noi che ci occupiamo di arti performative abbiamo molto da fare.
Soprattutto per questa iper-sventolata questione dell’arte che ha a che fare con la realtà / che si nutre di realtà / che agisce nella realtà / che ha nella realtà il suo primo referente.
Eccetera.
I miei condomini -e son persone normali, non certo dei minus habens– semplicemente non sanno neanche che esistiamo.
Sarà cosa ovvia, ma ogni tanto è bene ricordarcelo: per la stragrande maggioranza di coloro che millantiamo essere i destinatari del nostro fare (e, sia ribadito per inciso, coloro che con una parte delle proprie tasse ci dan da mangiare e ci aiutano a pagare le bollette) siamo niente.
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SOMETHING THIRD
Questa piccola indagine condominiale mi è tornata in mente, domenica 3 dicembre al Teatro Giovanni Testori di Forlì, durante l’ultima giornata della seconda edizione di Lucy Festival, a cura della Compagnia SBlocco5, ergo Ivonne Capece e Micol Vighi.
Di quella giornata, e allargando di tutto il progetto Lucy Festival, mi pare che un primo elemento di valore sia quello, per l’appunto niente affatto ovvio, di ibridare mondi, far incontrare persone che hanno vite, riferimenti, linguaggi diversi.
Donne e uomini che ogni giorno, tanto semplicemente quanto radicalmente, reciprocamente si ignorano.
Ecco dunque che la ricerca di quel something third che potrebbe nascere dall’incontro e dal tentativo di dialogo tra il mondo umanistico e quello tecnologico –punctum di Lucy Festival rilanciato in maniera cristallina dalla giornata a cui ho partecipato- è faccenda peculiare e preziosa.
Potrebbe, ho scritto poco fa.
E tentativo, ho aggiunto.
Il carattere realmente sperimentale di quell’intreccio, a mio avviso, si è manifestato con piena chiarezza nella giustapposizione di due performance di Sblocco5, la cui simultaneità ha generato, come sempre dovrebbe essere in ogni incontro che si rispetti, nuovi significati che non appartengono a nessuno dei fattori in campo, se a sé stanti.
Alla ricerca, o meglio verso la costruzione, di something third, appunto.
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CONFINAMENTI E SCONFINAMENTI
Utilizzo questa creazione bifronte a mo’ di sineddoche di un’attitudine all’alterità che mi fa pensare al frammento di una lettera in cui il filosofo rumeno Emil Cioran parla di Borges: «Non sono mai stato attratto da spiriti confinati in una sola forma di cultura. Non radicarsi, non appartenere a nessuna comunità – questo è stato e questo è il mio motto».
A proposito di annichilenti (auto)confinamenti e di fecondi sconfinamenti disciplinari, tematici, linguistici: Inside me e Lucy sono i titoli delle creazioni che, poste una di fianco all’altra sullo spazio scenico del Teatro Testori, hanno generato interrogativi su quella che comunemente è percepita come un’opposizione semantica di fondo, natura/cultura.
Al pari di vita/morte, umano/divino, animato/inanimato, piacere/dolore, ecc…, spesso nella ricezione comune traduciamo questa coppia di termini in natura vs cultura.
Sostituire l’attitudine escludente (o/o) con una inclusiva (e/e) può generare, come sempre, nuove e feconde possibilità di significazione.
Natura e cultura, dunque.
Rispetto a quanto è stato offerto alla ricezione della platea, detto con brutale sintesi: sulla sinistra vi è una figura femminile in relazione con un elemento naturale, ancorché addomesticato (una pianta in vaso), sulla destra un’altra figura femminile in dialogo con un robot non antropomorfo.
Tra le molte possibili letture di questa giustapposizione, salta agli occhi, innanzi tutto, come l’interazione con l’elemento robotico porti progressivamente a un accorto intendersi, laddove quella con la pianta conduca alla sua feroce potatura / distruzione, ribaltando il cliché per cui ciò che è naturale è genericamente migliore di ciò che non lo è.
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LE TECNICHE DEL CORPO
So di stare utilizzando, ai fini del mio piccolo discorso, termini-mondo scivolosamente generici.
Chiamo in soccorso, almeno parziale, uno dei padri dell’etnologia francese, Marcel Mauss, che a metà degli anni Trenta del Novecento inaugurava nuovi campi di studi quali l’antropologia e la sociologia del corpo ricordandoci, fra mille altre cose, nel suo seminale Le tecniche del corpo come il più naturale oggetto tecnico e, allo stesso tempo, mezzo tecnico dell’essere umano sia il suo corpo: esso è, quindi, il suo primo e il più naturale strumento.
Arrivando a Lucy Festival: natura e cultura sono polarità che agiscono stratificando significati in un campo largo che la pratica scenica aiuta a leggere in trasparenza e, almeno in parte, a ordinare.
Questo perché la scena, cito a memoria un passaggio del breve ma preziosissimo intervento del prof. Matteo Casari dell’Università di Bologna sperando di non ridurlo troppo malamente, si pone come punto intermedio tra la realtà irregimentata / semplificata dell’analisi di laboratorio e la spesso irriducibile complessità del reale.
Ciò rimanda a un’altra questione centrale che il dittico di SBlocco5 mette in evidenza: la posizione del soggetto guardante e come lo sguardo della persona che fruisce co-crei l’opera e, più largamente, la realtà che abita.
Un esempio noto a chiunque: la tendenza innata degli esseri umani a vedere forme antropomorfe nelle forme astratte, della natura et ultra.
A chi non è capitato di scorgere volti nelle nuvole, nei tronchi degli alberi, nelle pietre?
Il braccio robot usato nella performance andata in scena a Forlì, nato per l’uso industriale e non per l’interazione con l’essere umano, ai nostri occhi si umanizza, ci commuove il suo incontrare la figura umana in scena.
È possibile ricevere una forma del mondo, quale essa sia, in-quanto-tale, senza autoriferirla (al proprio caso personale o alla propria specie, poco cambia ai fini del nostro piccolo discorso)?
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ACCORGERSI
Matteo Casari, ancora, ha accennato a un suo futuro campo di indagine, il robot come altro sociale: «Perché ci dimentichiamo di chi attraversa il mare con un barchino e ci emozioniamo per un braccio meccanico che non sa neanche che esistiamo?».
A proposito del rapporto con il reale a cui si accennava in apertura di queste righe, c’è tanto di cui accorgersi.
Anche altre son le linee di tensione e significazione che lo sviluppo paratattico del dittico mette in azione.
Vale almeno nominarne altre tre:
– la vocalità come elemento in sé significante e come veicolo di contenuti culturali (Iliade, To be or not to be, E il naufragar m’è dolce…, ecc)
– visione antropocentrica in cui l’essere umano è comunque più forte dell’altro da sé e può usarlo a propria misura (ad esempio “suonando” con un archetto una pianta come fosse un violoncello, o potandola selvaggiamente)
– questione del tempo come biologia, evocata dalle due figure femminili in condizioni complementari, una gravida e l’altra con un bimbo di pochi mesi che sul finale della performance entra in scena.
Tanto di cui accorgersi e, per questo, ringraziare.
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Auguri a Lucy Festival, che possa continuare a mettere linguisticamente in movimento e relazione pensieri e mondi.
Alla ricerca, o meglio verso la costruzione, di something third.
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