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Dicono che il denaro non faccia la felicità, ma se devo piangere preferisco farlo sul sedile posteriore di una Rolls Royce piuttosto che su quello di una carrozza del metrò. (Marilyn Monroe).
La politica è economia. Al netto delle grandi ideologie, capitalismo da una parte e comunismo dall’altra, che poi si fanno strumentalizzazioni per raccontare e descrivere il mondo attorno a noi e trovargli una spiegazione logica, siamo sicuri che l’operaio metalmeccanico sindacalista che sciopera con i soldi di Berlusconi non avrebbe fatto le stesse scelte, non si sarebbe comprato la squadra del cuore, non avrebbe fatto cene eleganti? Si sa che i soldi non danno la felicità ma non averne è sicuramente peggio. In questa favola-parabola dei Sacchi di Sabbia, Uno, due, tre!, produzione Teatro Metastasio di Prato, che potrebbe essere vista come un mix tra l’intramontabile Una poltrona per due e l’inossidabile Pigmalione spostando l’oggetto dalla donna all’uomo, è evidente lo scontro tra i due grandi macrosistemi economici intesi come filosofie di vita, come approccio al mondo, il fare da una parte e l’essere contro dall’altra.
E’ l’adattamento teatrale-divertissement che Giovanni Guerrieri ha realizzato dalla pellicola, per la regia di Billy Wilder, scritta da Ferenc Molnar (l’autore de I ragazzi della Via Paal) del ’61 dove vi era una critica, nemmeno troppo velata, al blocco dell’Est, lui proveniente da Budapest e emigrato felicemente nella libera New York. In un ufficio dell’alta finanza, dove si spostano capitali e fortune, un uomo d’affari (Massimo Grigò, voce caldissima, centrale e robusto interprete, leggero e cadenzato, dittatoriale e morbido, allunga le gambe come una perfetta étoile) vuole trasformare, riuscendoci, un proletario (Annibale Pavone, prima viola di rabbia poi dimesso, duro e puro come un torrone ma pronto alla condiscendenza e alla friabilità) imbevuto e indottrinato dal comunismo, pugno chiuso e Internazionale compresi, perché sposatosi con la figlia (Giulia Gallo in rosa confetto, che passa dalla padella del padre alla brace patriarcale dello zio) di un suo caro amico, magnate anch’esso. Per non tradire le apparenze verrà rivoltato come un calzino, dai modi di dire, alla postura, dagli abiti alle scarpe, dalla maniera di relazionarsi ad una nuova occupazione.
Il capo d’azienda controlla ogni minimo dettaglio, ha il mondo in pugno, ordina, fa, chiede, esige, ottiene soprattutto, tutti gli sono ai piedi. Come i tanti collaboratori che ha a disposizione e che si affacciano (letteralmente attraverso una botola che si apre e spunta sulla scrivania e dalla quale esce soltanto la testa) tra le carte del Direttore che potrebbe essere associato a Trump come a Briatore. Questi personaggi hanno tutti il volto di Tommaso Taddei e i suoi lazzi e brio ed elettricità spumeggiante che modula la voce nei vari accenti, dal tedesco al napoletano, dal romano al siciliano, dall’emiliano fino al calabrese (un omaggio al suo Maestro Giancarlo Cauteruccio?), in un ruolo complicato e fondamentale che dà ritmo, velocità e forza ironica e comica con le sue entrate da testa di ariete, aprendo il cassetto, sgusciando sulla scena improvvisamente con i suoi cambi vocali, con le sue tante facce ricordandoci vagamente Winnie di Giorni Felici, lei incastonata, Taddei invece libero di poter mostrare soltanto la punta dell’iceberg dei suoi personaggi. Tra Hitchcock e Charlie Chaplin si articola e dipana questa metamorfosi e conversione. Da tesserato del PCI a datore di lavoro amministratore delegato a capo di aziende fino ai titoli onorifici, gli ideali vengono smantellati in un oplà, distrutti in un amen, grazie ai dollari gli fanno dimenticare Molotov e Majakovskij e lo silenziano grazie all’ebbrezza del denaro, alla potenza del conto corrente gonfio. Il capitalismo ha vinto ancora una volta.
Nella vita ci sono cose ben più importanti del denaro. Il guaio è che ci vogliono i soldi per comprarle. (Groucho Marx)
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