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Ci sono certi testi che in alcune circostanze esplodono in tutto il loro senso più profondo e recondito, ci sono alcune frasi che in un particolare contesto diventano chiare, limpide, abbaglianti e il loro intimo significato risplende e riluce illuminando il pensiero e il ragionamento.
È il caso del parallelismo tra il testo shakespeariano Amleto e i detenuti, tra il Castello di Elsinor e il carcere. Il teatro in carcere negli ultimi decenni è diventato proprio un genere a se stante: abbiamo visto svariati spettacoli di Armando Punzo a Volterra, ma anche di Gianfranco Pedullà alla Gorgona, di Livia Gionfrida e il suo Teatro Metropopolare a Prato, di Mimmo Sorrentino e, nel carcere di Modena come di Castelfranco Emilia, di Stefano Tè e del Teatro dei Venti. In Amleto è presente la Vendetta, forse quella stessa alla quale si sono lasciati andare alcuni detenuti, c’è la ricerca di Giustizia, forse quella che sentono di non aver avuto nella vita, ci sono i Fantasmi che dall’esterno tornano a tormentare le notti, c’è la ricerca della Verità che nessuno saprà mai fino in fondo, c’è la Pazzia del Principe, altra gabbia mentale nella quale è recluso. Amleto è in definitiva un detenuto costretto dentro al suo castello che diventa prigione e che infatti dice: Potrei essere rinchiuso in un guscio di noce e sentirmi re dello spazio infinito. A veder bene anche il monologo di Essere o non essere può essere sviscerato come parabola e metafora carceraria: Essere, o non essere, questo è il dilemma, se sia più nobile nella mente soffrire colpi di fionda e dardi d’atroce fortuna o prender armi contro un mare d’affanni e, opponendosi, por loro fine? Morire, dormire. Qualcuno avrà preso le armi e adesso dorme, riposa, lontano dalla società. O ancora: Che cos’è un uomo se si limita a mangiare e dormire? È una bestia. Che sottolinea la condizione carceraria che spesso punisce senza rieducare né reintegrare né redimere.
Stefano Tè e il Teatro dei Venti lavorano all’interno della casa circondariale di Castelfranco dal 2006 e nella struttura di Modena dal 2014 (con i quali ha messo in scena proprio in questi giorni un Giulio Cesare) e insieme affiancano questa grossa fetta della loro attività alle parate e spettacoli di strada (la grande installazione e costruzione del Moby Dick su tutti), festival internazionali e la loro rassegna Trasparenze trasferita da pochi anni a Gombola. Insomma, un grosso impegno, una grande forza e passione. E ci vuole testa e cuore, empatia e sensibilità, energia e cazzimma. Le stesse doti che ha messo sul palco questo Amleto napoletano (i nomi dei nove detenuti, sui sedici del cast della piece, non si possono comunicare), forza d’evasione e quel sapore, tra le righe, di verità, di vite sbagliate, di errori pagati a caro prezzo. Metti poi un pianoforte che suona un canovaccio imperterrito e sottolinea le sensazioni e i momenti drammatici (una bravissima Alessandra Fogliani), che amplifica le scene con cromatismi che vanno dal tango alla classica al barocco, come il clavicembalista Zipoli, che svaria da Scarlatti a Rachmaninov, che ritaglia il ritmo ed evidenzia le atmosfere, le illumina, le segue e sostiene come una seconda regia sul palco.
Una scena a più livelli, di gradini e piani sfalsati, perché i personaggi del dramma di Danimarca salgono e scendono, credono di elevarsi e poi sprofondano nell’abisso tragico, dalle stelle delle ambizioni al fango della dissolutezza, dall’Olimpo all’orlo del burrone del vulcano che tutto incenerisce. Da ricordare la prova di Ofelia (ci è rimasta negli occhi la sua danza che stride a terra, come gesso sulla lavagna, come un moonwalk con la sedia dove abbiamo visto un rimando e omaggio a Café Muller di Pina Bausch), quella di un Orazio hipster di presenza vichinga, quella del Re Claudio (detenuto che studia moda e ha disegnato i costumi). Già, i costumi, altra importantissima componente di questo Amleto (due ore che scorrono via come uno schiaffo poderoso, prod. Emilia Romagna Teatro ERT/ Teatro Nazionale, visto al bellissimo Nuovo Teatro delle Passioni) che spaziano senza un filone temporale riconoscibile ma che sono d’impatto come Gertrude gitana, Rosencrantz e Guildenstern che ricordano i bravi manzoniani, Claudio che è un ammiraglio, Laerte con il giubbotto di pelle da scugnizzo di Gomorra, Amleto che ha le scarpe laccate. Un gran bel lavoro composito che farà anche qualche tappa in tournée, in Campania e a Maranello, un lavoro da vedere, un lavoro di attori e un testo che s’infiamma, diventa corpo, si fa carne quando è detto da chi quelle parole le ha vissute in prima persona. Il teatro rende liberi. Regala, con la fatica del lavoro, la speranza.
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