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La Luna vive di luce riflessa. Come tante persone che la società, le invidie, il bullismo, le situazioni sbagliate definiscono marginali, allontanandole, facendole sentire sbagliate mentre il centro della luce è appunto la parte giusta, soltanto perché più numerosa e per questo più vigliacca. Il focus emozionale, tattile, materiale e poetico de La Luna, (prod. Interno 5 e Teatri Associati di Napoli, visto alla Sala Assoli) lavoro straziante e doloroso ma anche di rifioritura di Davide Iodice, sono questi quattro grandi parallelepipedi che vengono spostati e si incastrano tipo un gigantesco Tetris. Sono piccoli grattacieli di sporco ammassato, di rifiuti solidi compattati che agiscono in una triangolazione che si fa materia e sogno ad ogni gradino: i rifiuti in scena, sul palco, in questione, sono stati portati fisicamente da persone che sono state fatte sentire rifiuti e che hanno rifiutato questo oggetto-feticcio-simulacro e disfacendosene, raccontando la propria storia collegata alla singola cosa, sono rinati perché hanno chiuso un cerchio, una toccante parentesi di vita e hanno intrapreso una rinascita, più leggeri, senza quella zavorra che li ancorava a terra invece che permettergli di volare e lasciarsi alle spalle quel pesante passato. C’è un babbuino che si aggira su questi palazzi di scarti, che è la nostra scimmia che saltella feroce sulle nostre spalle, quella che ci fa fare le scelte sbagliate, quella delle dipendenze, compresa quella a reiterare la sofferenza ricercando certi carnefici, continuando a crogiolarci amaramente in mezzo a certi oggetti che ci affossano e ci trascinano nel torbido vortice del buio passato.
Un lavoro complesso e stratificato a più letture, potente come uno schiaffo. In audio le voci delle persone che realmente hanno abbandonato quell’oggetto così importante e così dannoso, così centrale e così deleterio dal quale era così difficile staccarsi: il vestito usato al funerale del padre, l’abito da sposa di un matrimonio diventato costrizione e violenza, i mazzi di fiori secchi che il compagno le regalava il giorno dopo averla picchiata. Tante testimonianze che si fanno teatro fisico. La candela del compleanno dei diciotto anni dopo svariati di anoressia, gli occhiali rotti dopo aver subito un pestaggio dai bulli, la bacchetta magica del mondo nascosto ricreato nella fantasia di una bambina che non voleva stare nel mondo reale perché offesa e umiliata dai compagni di scuola, la parrucca indossata da un bambino che i grandi hanno fatto vergognare per questo gesto, una gabbietta per uccelli dove un cardellino si è suicidato beccandosi il petto fino alla morte, la cinghia con la quale un uomo era stato legato in manicomio, un Cristo in croce che qualcuno le aveva regalato dopo l’incidente mortale del fratello, la siringa con gli ormoni per avere un bambino mai nato, le luci stroboscopiche della camera dove si era rifugiato il fratello la fotografia del padre-atleta morto giovane. C’è tanta verità dentro queste parole lancinanti.
Gli oggetti non sono soltanto cose, non sono soltanto roba. Oggetti intimi, personali, che sono pezzi di vita, oggetti che sono causa, colpa o soltanto incidentalmente sono entrati dentro momenti particolari di crisi esistenziali. Gli oggetti sono i sogni interrotti, sono felicità spezzate, crack di persone rotte dentro. Oggetti come traumi, catartico il liberarsene. La scena sembra un’installazione d’arte contemporanea con questi blocchi che inglobano corpi e li restituiscono diversi, segnati, feriti mentre lo sciaguattio del mare che è inquinato dai rifiuti che non sono le persone che hanno subito gli abusi ma i colpevoli che hanno messo in atto tali piccole grandi quotidiane barbarie. Un racconto commovente che non lascia indifferenti ma che non cerca il dolore esposto, anzi qui c’è una timidezza sottovoce, che non si fa mai melodramma, una sofferenza misurata, ordinata e razionale che si fa ancora più dilaniante. La Luna è un notturno che ci piega, che ci mangia dall’interno, che ci fa contorcere, è un male sotterraneo che non sappiamo in quale zona identificare, un malanno che si espande sotto le costole e non ci sono medicine se non l’ascolto in religioso silenzio e la comprensione.
Ogni persona che incontri sta combattendo una battaglia di cui non sai nulla. Sii gentile, sempre.
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