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Proseguo oggi l’esperimento di una (per me) nuova modalità di restituzione.
Lo faccio recuperando la funzione che la critica aveva quando nacque, nel Settecento: farsi ponte tra le creazioni e il pubblico.
E, per chi scrive, assumere in sé l’onere del consiglio.
Nessuna analisi specifica, come sono invece solito fare nelle mie scritture: piuttosto mettermi al servizio di una creazione, a partire da un chiaro apprezzamento, da un esplicito posizionamento (cosa che cerco di non mettere mai in evidenza, nelle mie pubblicazioni più analitiche).
Qui scrivo con arbitraria, apodittica brevità, con smaccata partigianeria.
Buona lettura, se vi va.
SENTIMENTI, RAGIONAMENTI
Alla mostra Felicitazioni! CCCP Fedeli alla Linea 1984-2024 (ai Chiostri di San Pietro di Reggio Emilia fino all’11 febbraio prossimo) ci si può andare -o ritornare- per molti motivi.
Ora ne nomino due, forse alternativi, più probabilmente complementari.
Il primo.
Per innaffiare la propria ammirazione o, più esattamente, la propria nostalgia.
Per ricordarsi della propria gioventù.
Del disordine di ciascunə a cui l’esattissimo disordine di Giovanni Lindo Ferretti, Massimo Zamboni, Annarella Giudici e Danilo Fatur dava corpo, slancio. Voce.
Per riascoltarla, quella voce, tra gli spazi monumentali e decadenti dei Chiostri. Iniziando da quello grande: come un canto di muezzin che, attraverso gli altoparlanti da Festival dell’Unità, significante e misterioso si fa luogo.
Per (ri)trovare memorabilia d’ogni tipo, insieme ad alcune rarità.
Gli spot patafisici per la Virgin.
Il tavolo “di” Togliatti.
Le fotografie di Luigi Ghirri scattate a Villa Pirondini, nei pressi di Reggio Emilia.
Il secondo.
Per incontrare un’opera sull’opera. O meglio, come dicono loro, la vertigine della nomenclatura.
UN’AVVENTURA DEL LINGUAGGIO
È un discorso su un discorso, quello in cui ci si imbatte attraversando gli spazi dei Chiostri di San Pietro.
Tracce di quanto è stato si vivificano in una composizione al presente: significanti, prima e più che significati.
Segni, prima e più che simboli.
Forme in movimento (visive, sonore, materiche, vocaliche) che accadono in un qui e ora che ci strappa con gentile ferocia dal crogiolo dei tempi andati, belli o brutti che fossero.
LA (IM)POSSIBILITÀ DELLA COMUNICAZIONE
Il perimetro di cavalli di frisia che delimita l’installazione del Chiostro grande mi pare letteralmente programmatica di un’attitudine, a significare una materica, ineludibile separatezza: tra il luogo in cui si sta ad osservare (sotto ai loggiati) e il fuoco centrale che chiama (per nostalgia, allegria o malinconia, poco cambia).
È come se l’opera che son qui a incontrare sia quello spazio terzo, vuoto, inavvicinabile.
O meglio: forse l’opera dell’arte qui è il mio / nostro protenderci.
Fa che, cerca di, tendi a, diceva un gigantesco poeta, Andrea Zanzotto.
Una temporanea comunità riunita per e attorno a una parola vertiginosamente indicibile, a una vicenda spietatamente non ordinabile.
Altro che faccenda da fan!
L’organizzazione paratattica, affermativa, rizomatica degli spazi, così come del denso catalogo che accompagna la mostra, accerchia una luminosa impossibilità, circoscrive una feconda mancanza.
E noi tuttə, lì, a testimoniare quel che non c’è: in equilibrio (precario) tra il qui e ora e il qui e allora.
Vertigine della lista, direbbe quel geniaccio di Umberto Eco. In questo caso col correttivo punkettone e lucidissimo di una sequela esplosa, impossibile da conchiudere. Forse finanche da leggere, come quando da bambini si scrivevano parole su foglietti a righe con l’inchiostro simpatico. E poi via, dietro a un pallone: con un guizzo muscolare che di colpo cancellava tutto il prima, e il poi.
DEL GESTO DI CANCELLARE
Vien da pensare a Emilio Isgrò. A ciò che affiora dalle sue opere. A ciò che genera il fare michelangiolescamente scultoreo: teso cioè a liberare la forma.
Questo a mio avviso è ciò che fa, questa mostra che non mostra se non tracce, indizi.
E che, così facendo, mi e ci fa molto commuovere, cioè muovere insieme.
Bisogna volerla fare, questa capriola.
Bisogna saperla fare.
OPERA SULL’OPERA
L’invito è, dunque, ad andarsi a perdere in questo labirinto.
E leggere quello che Giovanni Lindo Ferretti ha raccontato a Francesca Saturnino su doppiozero, la mattina dopo il Gran Galà Punkettone che ha inaugurato la mostra.
E seguire i prossimi incontri: ce ne sono ancora quattro, tra dicembre e gennaio (Danni collaterali, han chiamato questo intrigante programma).
L’invito è, infine, a provare a praticare per qualche attimo quella diminuzione di sé che sola permette al mondo, anche a quello strambo delle arti, di rivelarsi.
Lasciare in tasca i telefonini.
Non solleticare troppo i propri ii, per dirla con Sanguineti.
Non sgomitare per (e con) forza l’amica davanti alla teca per raccontarle tutte le volte che li ho visti in concerto, per confermarle che quel disco ce l’ho anch’io.
Per dirle (dirsi): io c’ero. Io ci sono.
Forse per un attimo provare a provare, attraverso il già noto e le nostre piccole biografie, la vertigine linguistica di quel che non conosciamo e che a tratti, come nella poesia, si rivela.
Quel che non sappiamo, e che generosamente ci nutre.
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