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NUOVO E CLASSICO
Inauguro oggi l’esperimento di una nuova modalità di restituzione.
E lo faccio recuperando la funzione che la critica aveva quando nacque, nel Settecento: farsi ponte tra le creazioni e il pubblico.
Nuovo e classico: su queste due polarità muoverò il consiglio di oggi.
Nessuna analisi specifica, come sono invece solito fare nelle mie scritture: piuttosto mettermi esplicitamente e sinteticamente al servizio, a partire da un chiaro apprezzamento (cosa che cerco di non mettere mai in evidenza, nelle mie restituzioni più analitiche).
MARIA STUARDA
Oggetto del consiglio di oggi: Maria Stuarda, in scena ancora questa sera (sabato 4 novembre alle ore 21) e domani (domenica 5 novembre alle ore 16) al Teatro Diego Fabbri di Forlì.
Segnalo fin d’ora, per chi volesse capire meglio le dinamiche di questa imponente creazione, l’incontro di oggi pomeriggio alle ore 18 con il cast, a cura di Pietro Caruso, nel Ridotto del Teatro (ingresso libero e gratuito).
Imponente, sia detto per inciso: tre ore compreso intervallo. In un panorama di rassegne e Festival che si compongono di assoli di 20 minuti spesso presentati in prova aperta, studio e anteprima, o come li si vuol chiamare, questa durata è di per sé un’esperienza.
DUE PUBBLICI
Questo spettacolo credo possa soddisfare due tipi di pubblici, paralleli e in qualche modo contrapposti: quelli più legati a modi e forme del classico e quelli alla ricerca del nuovo.
Pubblici: il plurale non è casuale.
Chi frequenta, anche saltuariamente, i teatri conosce bene le enormi differenze esistenti tra i pubblici.
Ne ricordo almeno due, ora. Quello “degli abbonati” (della prosa, della lirica, della musica o del balletto): solitamente persone di mezza o tarda età, di discreto o buon livello economico e culturale, spesso legate a una concezione classica di arte (testocentrismo, idea di bello come abile imitazione della natura e di arte come espressione di emozioni e sentimenti, …).
E quello “del nuovo” (nei vari ambiti: musica, teatro, cinema, danza, …): di solito un pubblico giovane (o giovanile), con non grande disponibilità economica e una discreta cultura off, politicamente orientati a sinistra (con le mille varianti del caso) e un’attitudine ad accogliere il non (de)finito e, almeno teoricamente, le complessità del linguaggio.
I diversi pubblici di solito non si incontrano, non si conoscono, non si siedono accanto, nel buio della platea. Mai. Si sta ben divisi, ognuno nei propri spazi e momenti, avendo cura di non mescolarsi, di non confondersi.
Ultimo esempio vissuto personalmente (in ordine di tempo): ieri sera al Teatro Diego Fabbri di Forlì di artisti, cultori e critici del nuovo neanche l’ombra. Come se non ci fosse nulla da godere, o da imparare. Vabbè.
DAL GUSTO ALLA RETE
Dovesse interessare, per eventuali approfondimenti: di tali questioni si è intensamente occupata, negli ultimi quarant’anni, la sociologia del gusto, a partire dal fondativo saggio La distinzione. Critica sociale del gusto, di Pierre Bourdieu.
La tesi del sociologo e filosofo francese è (detta schematicamente): le pratiche di apprezzamento e di consumo culturale sono determinate da network sociali pre-esistenti.
Gli studi successivi arrivano a valutare vero anche l’esatto contrario: sono i diversi stili di consumo e apprezzamento culturale a generare le reti sociali.
Cioè: abitiamo una società in cui il gusto si converte “all’istante” in forme di relazione tra individui, e il consumo culturale offre una base per interagire tra soggetti con interessi simili.
Il gusto diventa un modo per costruire reti, insomma.
INCORAGGIAMENTI
Comunque, tornando a noi, e a Maria Stuarda.
Queste poche righe per incoraggiare gli uni e gli altri, il pubblico del classico / della prosa e quello del contemporaneo / del nuovo (so bene che queste definizioni sono oltremodo fallaci, le uso solo per necessità di sintesi) a non lasciarsi sfuggire questa occasione forlivese, o cercare dove lo spettacolo sarà, nei prossimi mesi.
Proverò a suggerire alcuni -a mio avviso- motivi di apprezzamento per gli uni e per gli altri.
- PER CHI APPREZZA LE FORME DEL CLASSICO
In primis la téchne: la mostruosa bravura delle due protagoniste, Elisabetta Pozzi e Laura Marinoni (e dei comprimari, all’altezza della situazione). La perizia, ciò che fa distinguere l’artista dal non artista, qui si esplica in mille precise sfumature dei corpi-voce in scena, con l’aggiunta di un iniziale, sostanziale virtuosismo da capogiro: la casuale caduta di una piuma dall’alto, nel prologo, determina quale ruolo (Maria Stuart o Elisabetta I) le due protagoniste interpreteranno.
Il riferimento al reale, e per di più a un reale storicamente connotato e denso, e con forti rimandi anche alla situazione attuale (un esempio fra tutti, a mo’ di sineddoche: il potere che non si assume la responsabilità del proprio agire).
La fonte letteraria autorevole: in questo caso il capolavoro di Schiller del 1800.
L’imponenza (del numero di attori in scena, del piano luci e della scena mobile, ricca di sipari a scomparsa e di scale semoventi): il gusto per la grandeur.
Un dispositivo immersivo e realistico, ancorché stilizzato, dominato dall’intensa espressione di emozioni e sentimenti, con l’effetto catartico che la sospensione dell’incredulità (pre-requisito della fruizione teatrale tradizionalmente intesa) crea.
- PER CHI È IN CERCA DEL NUOVO
Il citato espediente d’apertura della piuma che determina i ruoli pone immediatamente in primo piano la questione del teatro come dispositivo linguistico, come avventura di significanti, prima e più che di significati.
La cantante e chitarrista (Giua) che per gran parte dello spettacolo sta sottopalco, guardando la scena come fosse un gigantesco schermo: si è nel regno della rappresentazione, pare dirci, pur abitando il medium musicale, che è ontologicamente costituito di forme sonore in movimento che si manifestano. Presentazione vs rappresentazione: come non pensare ai cavalli di Kounellis in galleria?
Il tema, attualissimo e spesso finanche militante, della centralità della donna che asseconda un’attitudine machista / patriarcale o che, al contrario, incarna uno specifico femminile qui è consegnato alla platea senza soluzione, piuttosto come interrogazione attraverso l’arte della scena.
In generale, e per concludere: lo spettacolo diretto da Davide Livermore si pone come luogo enigmatico attraverso la fabula. È, posso forse azzardare, uno dei molti modi di esistenza di ciò che Hans-Thies Lehmann ha chiamato, ormai un quarto di secolo fa, teatro postdrammatico, in cui le forme tradizionali della rappresentazione sono superate attraverso le stesse forme tradizionali di rappresentazione.
È una curiosa capriola, per chi fa e per chi guarda: bisogna volerla fare, bisogna saperla fare.
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Buona visione, a tutte e tutti.
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