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Proseguo l’esperimento di una (per me) nuova modalità di restituzione.
Lo faccio recuperando la funzione che la critica aveva quando nacque, nel Settecento: farsi ponte tra le creazioni e il pubblico.
E, per chi scrive, assumere in sé l’onere del consiglio.
Nessuna analisi specifica, come sono invece solito fare nelle mie scritture: piuttosto mettermi al servizio di una creazione, a partire da un chiaro apprezzamento, da un esplicito posizionamento (cosa che cerco di non mettere mai in evidenza, nelle mie pubblicazioni più analitiche).
Qui scrivo con arbitraria, apodittica brevità, con smaccata partigianeria.
Buona lettura, se vi va.
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CRONACA E LINGUAGGIO
Oggi, 25 novembre, si celebra la Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza sulle donne.
Ed è tutto un fiorire di incontri, spettacoli, dibattiti.
Quest’anno con la tragica aggiunta di un feroce fatto di cronaca a infiammare gli animi: la ventiduenne Giulia Cecchettin morta ammazzata, con ogni probabilità dal coetaneo (ex) fidanzato Filippo Turetta.
Certo si potrebbe riflettere, e a fondo, sul perché di questa iper-attenzione a questo specifico femminicidio (uso iper in contrapposizione a quella, inesistente o quasi, per i troppi femminicidi avvenuti prima, e dopo, quello di Giulia).
Certo si dovrebbe ragionare sul linguaggio da forca a cui l’uso e abuso dei social dà luogo, come chiacchiere da bar amplificate nel globo terracqueo.
Tuttə espertə di virologia, ai tempi del Covid, poi di politica internazionale, ora di psicologia criminale.
Perché pagare con le nostre tasse un mastodontico e spesso inefficiente sistema giudiziario, ci si potrebbe chiedere, se basta aprire Facebook per trovare la soluzione definitiva a ogni dubbio investigativo o processuale su qualsivoglia fatto di cronaca?
Parole in libertà: tant’è.
Niente di nuovo sotto al sole, purtroppo, come nuovo non è ciò di cui questo Barbablù si occupa, ahinoi.
Né il come: e per fortuna.
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COSA
In scena un testo di Hattie Naylor, drammaturga britannica che ha esplorato, tra l’altro, i mo(n)di della danza e delle arti visive, tradotto con ritmica sapienza da Monica Capuani, penna di serie A del giornalismo italiano da anni attiva nel divulgare opere di drammaturgia contemporanea internazionale, et ultra.
«Barbablù è un seduttore, ammaliatore, provocatore. Un intelligente galantuomo che ci sa fare con le donne, soprattutto con alcune. Un predatore che passeggia e fiuta la preda ancor prima che essa diventi tale. Un giocatore competitivo che contempla la vittoria come unico finale possibile. Barbablù osserva e ammicca. È gentile e premuroso. Fa un passo alla volta e non si concede mai subito e mai del tutto. Ascolta e risponde al bisogno più intrinseco. Accarezza e coccola. Desidera e idealizza. Crea connessioni perfette. Ama. Barbablù ha bisogno di sentirsi forte e superiore. Non scende dentro di sé. Non risponde alle domande. È vulnerabile e non sostiene la cura dell’altro. Barbablù tesse la sua (di lui, di lei) gabbia. È in trappola. Per non esplodere dentro, esplode fuori. Barbablù violenta, tortura, uccide. Vince»: questo si legge nel programma di sala.
E questo, in una scena ingombra di molte funi a coprire un alto parallelepipedo posto al centro dello spazio e a sorreggere quattro indumenti con cui il protagonista Edoardo Frullini progressivamente veste il proprio corpo inizialmente seminudo, accade in primis attraverso il linguaggio verbale.
Vien da pensare a uno dei Padri fondatori del Novecento teatrale, Jacques Copeau, alla sua poetica del tréteau nu, secondo la quale bastano le parole del poeta-drammaturgo, rese viventi e visibili dall’attore, a evocare lo spazio nella mente dello spettatore (in fondo, ancora secondo i dettami della poetica simbolista, che con Pierre-Antoine Quillard aveva proclamato, più di venti anni prima, “Sono le parole che creano il décor e tutto il resto”).
È un teatro di parola incarnata e spazializzata, questo Barbablù.
E, a proposito di parole, voglio qui riportare con esattezza un breve, folgorante passaggio iniziale del testo, che mi e ci getta immediatamente nel terreno, dirimente ancorché quasi sempre ignorato, del come:
«Non la chiamerò fica, o passera, o fregna, la chiamerò rossa. La sua rossa. Non lo chiamerò cazzo, o minchia, o uccello, lo chiamerò granito, il mio granito. Non le chiamerò seni, o tette, o bocce. Le chiamerò le sue loro – le sue piccole loro – che fanno su e giù sotto: una camicetta, una maglietta, un abito di cotone leggero con i bottoncini di madreperla fino giù fino lì».
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COME
Questo apparentemente insensato slittamento semantico, posto in apertura dello spettacolo, ricorda e rilancia un aspetto fondamentale dell’arte, di ogni arte: è faccenda linguistica. E chi la incontra si getta in un’avventura di significanti, prima e più che di significati.
Tale consapevolezza è, invero, affatto rara, per cui solitamente si apprezzano in primis creazioni che abbiano un esplicito contenuto sociale e civile, tralasciando tutto il resto.
Paradosso secondo cui uno spettacolino dilettantistico contro la guerra varrebbe di più di una coreografia luminosamente astratta di Merce Cunningham.
Tant’è.
Uno dei meriti dell’asciutta regia di Giulia Paoletti è il rispettare, rilanciandola, la specificità della disciplina che abita.
Del ricordarci, e sa il cielo quanto ce ne sia bisogno, di essere di fronte a un accadimento teatrale, dunque a una finzione.
Tre esempi fra molti.
Lo straniante frammento di testo citato.
Le matasse di funi usate come personaggi, con cui l’interprete si relaziona o che fa dialogare tra loro.
La postura distesa, da michelangiolesca Pietà prima seminuda e poi vestita che apre e chiude lo spettacolo, a ricordarci, ancora e ancora, di esser di fronte a un dispositivo linguistico.
Faccenda non scontata, ad ascoltare i commenti del pubblico all’uscita, tutto proteso a commentare i fatti presentati e nessuno a ragionare sul come, al fatto che su questo tema si è appena visto uno spettacolo teatrale, non un film o un documentario o una conferenza.
Quanto bene ci farebbe invece, una maggior consapevolezza, non per diventar tuttə espertə in critica teatrale, non-mestiere che peraltro si sta scientemente suicidando, piuttosto per parlare invece di esser parlati, decidere invece di esser decisi, scegliere invece di esser scelti. Divenire, in altre parole, cittadinə più consapevoli.
Bertolt Brecht, ci metto la mano sul fuoco, sarebbe d’accordo.
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PRIMA
Prima dello spettacolo, nel foyer del Teatro Piccolo di Forlì dove ho visto questa produzione di Accademia Perduta / Romagna Teatri il giorno dopo il debutto avvenuto a Cervia (sarà ancora in scena questa sera alla Casa del Teatro di Faenza e la prossima settimana, da martedì 28 novembre a domenica 3 dicembre, al Teatro Cometa OFF di Roma, poi in tournée), mi sono imbattuto in una mostra che problematizza un altro ferale automatismo: la relazione ahinoi spesso colpevolizzante tra l’abbigliamento delle vittime di violenze sessuali e ciò che poi accade loro.
Com’eri vestita? è il titolo dell’esposizione, curata in Italia da Amnesty International, che accompagnerà in molti teatri lo spettacolo (QUI una presentazione in video di questo commovente progetto).
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DOPO
Dopo si potrebbe tornare al prima, mi si perdoni il gioco di parole.
Si potrebbe tornare ad almeno altri due allestimenti di Barbablù che han fatto la Storia: il cortometraggio barocco del 1901 di Georges Méliès, uno dei capisaldi del cinema delle origini (QUI) e la coreografia del 1977 di Pina Bausch, fautrice di quel teatro-danza che ha per sempre cambiato la storia dell’arte performativa attraverso l’ibridazione, con siderale lucidità compositiva, di forma e sentimento, di biografie e codici espressivi (QUI un frammento).
Vi si potrebbe tornare non per far paragoni, sarebbe ridicolo, piuttosto per allargare nella direzione della molteplicità dei linguaggi la ricezione della fiaba che Charles Perrault nel Seicento ci fece conoscere.
Infine, consiglio nel consiglio: dopo si potrebbe tornare al dopo.
Una gita in Triennale a Milano, dal 5 dicembre al 10 marzo prossimo, per la prima personale in Italia dello scultore australiano Ron Mueck: per imbattersi in quell’iper-realismo che la sproporzione rende straniante mistero, avventura della forma.
E ricordarci, ancora e ancora, che il nostro guardare le opere le crea, così come il nostro posizionarci nel reale lo modifica.
E che ciò comporta consapevole responsabilità.
Umberto Eco, ci metto la mano sul fuoco, sarebbe d’accordo.
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