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Poesia in forma di cosa: vien da parafrasare Pier Paolo Pasolini, ripensando all’edizione 2023 del Festival Colpi di Scena. Sguardo nel contemporaneo che Accademia Perduta/Romagna Teatri in collaborazione con ATER Fondazione ha proposto a Forlì (e dintorni) dal 26 al 29 settembre.
Sulla nostra rivista, nei giorni scorsi, Tommaso Chimenti ha già offerto un’articolata analisi di molte delle creazioni presentate.
In parallelo al suo sguardo cercheremo di enucleare quattro evidenze pasoliniane che ci sembra, a posteriori, possano emergere dalla proposta culturale messa a punto da Claudio Casadio e Ruggero Sintoni.
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PRIMA EVIDENZA: LE FONTI LETTERARIE
In primis salta agli occhi l’alto tasso di nutrimenti letterari che muovono diverse proposte incontrate: dal nuovo affondo nella cultura russa di Teodoro Bonci Del Bene (da Puškin a Vyrypaev, et ultra) fino al Kafka riletto in chiave surrealista da Menoventi (QUI la nostra intervista), dal gotico ottocentesco di Mary Shelley tradotto in carne e immagini da Ivonne Capece per Elsinor al Calvino de Le città invisibili preso a prestito in occasione del centenario della nascita dagli Instabili Vaganti, dal testo commissionato alla recente finalista del Premio Strega Rosella Postorino per la creazione di Sandro Mabellini alle opere del poeta, scrittore, critico letterario e traduttore argentino Juan Rodolfo Wilcock per Beati voi del Gruppo della Creta, fino a due basilari narrazioni della cultura occidentale trasdotte per la scena dalla Compagnia Berardi / Casolari (LidOdissea) e da Mana Chuma Teatro (Un’altra Iliade).
Questo sintetico elenco a sintetizzare una tendenza in atto, che Colpi di Scena 2023 ha senz’altro posto in evidenza: dopo molti anni di Teatro Immagine (con tutte le filiazioni e le derive del caso) stiamo assistendo al ritorno sulle scene anche più radicali di una testualità diffusa, ancorché inevitabilmente elaborata e rigenerata con attitudini affatto difformi, forse per giungere (finalmente, vorremmo sussurrare) a una prassi di ricerca performativa che fa della propria intelligibilità la conditio sine qua non della plausibilità del proprio manifestarsi.
Ci sembra in tal senso decisamente incoraggiante l’allontanarsi pressoché condiviso da asfittiche modalità creative egoriferite utili solo a compiacere una qualche supposta élite intellettuale.
E, in questo senso, l’aggancio a un testo letterario indiscutibilmente può esser d’aiuto, soprattutto per le persone meno avvezze alle stramberie del contemporaneo: senza dimenticare né il paradosso pasoliniano di un intellettuale (anche) letterato che ha per tutta la vita inseguito e fatto a pugni col teatro né l’inevitabile testocentrismo che da Aristotele in poi informa la nostra ricezione di guardanti occidentali.
SECONDA EVIDENZA: LA MULTIDISCIPLINARIETÀ E LA PROSPETTIVA CULTURALE
Il teatro, si sa, è una disciplina che ontologicamente intreccia e rilancia diversi saperi (come emerso nell’illuminante incontro guidato con colta visionarietà da Renata Molinari, durante il quale la studiosa ha evidenziato, tra l’altro, come la dimensione corale oggi si inveri più per necessità di integrare competenze diverse che per spinta identitaria, muovendo dal concetto di gruppo a quello di squadra).
È altrettanto evidente, e diverse creazioni presentate a Colpi di Scena lo han manifestato, come l’affondo in mondi linguistici altri dallo specifico teatrale sia per moltə artistə un’imprescindibile esigenza creativa, come a dar corpo scenico a una liquidità che tutto e tuttə informa.
Ciò ha inevitabilmente dato origine, e questo ci sembra il dato di maggior interesse, a una rinnovata interrogazione a quello sguardo spett-attoriale che il Festival forlivese ha posto nel proprio sottotitolo e che è da sempre co-creatore di qualsivoglia discorso (termine qui usato nell’accezione focaultiana di risultante del rapporto dialettico tra potere e sapere).
Detto altrimenti, e con un esempio: il paradossale affondo di Teodoro Bonci Del Bene nella comicità russa, che ha aperto il Festival, problematizza ciò che in due diverse culture è recepito come ilare, finanche divertente, ponendo la persona ricevente in un sistema culturale complesso, affatto irriducibile.
Ciò vale per tutti o quasi gli spettacoli incontrati. Per necessità di sintesi nomineremo ora solamente quello che ha chiuso Colpi di Scena 2023, Negri senza memoria di Alessandro Berti, secondo episodio di una trilogia dedicata a interrogare i rapporti di forza (tra potere e sapere: Foucault, ancora) tra cultura bianca e cultura afrodiscendente.
In tal senso Colpi di Scena si è manifestata come proposizione culturale che muove (verso) la complessità attraverso elementi non respingenti per oscurità o astruseria: bisogna saperlo fare. Bisogna volerlo fare.
TERZA EVIDENZA: (L’AUTO)BIOGRAFISMO
Vi è inoltre, pare emergere da quanto incontrato, un netto ritorno all’attitudine performativa, termine qui usato nell’accezione proposta da Patrice Pavis nel suo celebre Dizionario del teatro, là dove chiarisce: «Il performer è colui che parla e agisce a suo nome (come artista e persona), rivolgendosi al pubblico in tale veste, mentre l’attore rappresenta il proprio personaggio e finge di non sapere di essere un attore di teatro. Il performer realizza una messa in scena del proprio io, mentre l’attore recita la parte di un altro».
Ci siamo imbattuti, a più riprese, in figure sceniche che fanno della diretta ostensione del proprio io -e comunque che abdicano alla convenzionale interpretazione che fa della sospensione dell’incredulità il prerequisito essenziale affinché l’incontro con la platea possa avvenire- il punctum e lo studium, per dirla con Roland Barthes, della loro consistenza: l’autobiografia (reale o immaginaria poco importa, in quanto comunque proposta come realistica) diviene aggancio sia emotivo che intellettivo che rende plausibile -almeno nelle intenzioni, non sempre nei risultati- l’incontro.
Come non pensare alla pasoliniana inesausta tensione a porsi al centro delle proprie opere, d’arte e di pensiero, alla sua scandalosa quanto vertiginosa autoindulgenza nel dire, in molti modi, io?
Da sempre, si sa, l’io dell’artista si manifesta (anche) attraverso la propria téchne: ecco dunque emergere, da quanto incontrato a Forlì, un’attitudine processuale massimamente estroflessa, con diversi spettacoli che hanno per oggetto il proprio stesso farsi, creazioni che raccontano il proprio crearsi, narrazioni che rendono fabula la propria genesi.
La storia dell’arte, si sa, è storia del come, non del cosa: è avventura del linguaggio.
La differenza la fa, com’è noto, il trattamento linguistico di qualsiasi materiale, di qualsivoglia tema o dispositivo.
La ventina di diversissimi spettacoli incontrati ce lo ha ricordato: e non è poco.
QUARTA (E ULTIMA) EVIDENZA: LE COSE
Ricordi di scuola: il correlativo oggettivo è un concetto poetico elaborato nel 1919 dal poeta T.S. Eliot che lo definì «una serie di oggetti, una situazione, una catena di eventi pronta a trasformarsi nella formula di un’emozione particolare».
Pasolini vedeva e faceva piangere una scavatrice, per dire.
Una simile dinamica sembra inversarsi in molte delle creazioni incontrate: in primis certo nell’Album di Kepler-452, in cui gli oggetti divengono vero e proprio manifesto poetico di un ricordare in bilico tra «qualche cosa che abbiamo e che abbiamo perduto» (per dirla con Woody Allen), ma anche negli straniamenti pop di Menoventi, nei divani-nido di Bluestocking (QUI la nostra intervista) e del Gruppo della Creta, nelle pance posticce e al contempo umanissime del nuovo spettacolo di Les Moustaches (in cui il ritmo dell’interazione fisica e vocale dei tre corpi-teatro in scena è così esatto da farsi cosa), nella farina che invecchia davanti ai nostri occhi i due protagonisti nel passaggio più commovente di LidOdissea, nella materia antica (legno, tela, luci a far da contrappunto alle molte id-entità vocaliche e cinetiche dell’interprete) di cui è disseminata -a moltiplicare prospettive e visioni- la scena di Un’altra Iliade, fino alle parole-cose nel magmatico, post-apocalittico, beckettiano La Faglia della Compagnia Amendola / Malorni.
Vien da pensare al celebre saggio di Foucault Le parole e le cose del ’66. Il libro si apre con una descrizione e un dettagliato commento del quadro Las Meninas di Diego Velásquez, della complessa composizione delle sue linee e dei suoi effetti nascosti. «Può essere che ci sia, in questo quadro di Velásquez, come la rappresentazione della rappresentazione classica», scrive Foucault.
Le cose come possibile ulteriore livello di significazione e di riflessione sul mistero e la grazia dell’espressione, dunque, e sul suo concretizzarsi scenico: la rappresentazione.
Che è ciò attraverso cui un Festival teatrale, concretamente e culturalmente, agisce.
In sintesi e conclusione.
Quasi venti spettacoli proteiformi, operatori e artisti da tutta Italia, grande nutrimento per gli occhi e il pensiero, organizzazione e accoglienza impeccabili: di questo, e tanto, vogliamo ringraziare.
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