Il Milano Off Fringe, vetrina del teatro indipendente

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In Italia negli ultimi anni sono spuntati vari Fringe festival sulle orme del tanto decantato Edimburgo dove migliaia di compagnie ogni anno cercano un posto al sole, pagando per esibirsi e tornando con il conto in rosso. Edimburgo dove si parla solo di business, ovviamente da parte di chi organizza, utilizzando l’arte altrui con lo specchietto delle allodole della vetrina. In Italia Torino è quello che si è stabilizzato maggiormente, poi abbiamo Roma, quello di Catania e i due milanesi, in competizione e conflitto, quello di Nolo, a maggio, e il Milano Off Fringe Festival che siamo venuti a visitare per la terza volta. Alla quinta edizione, cinquanta spettacoli in due settimane (dal 25 settembre all’8 ottobre) dislocati in quindici spazi. Troppi gli spettacoli (ci va di mezzo la qualità), troppi i luoghi (lontani tra loro), troppo dispersivo (Milano è sempre caotica). Tre pièce al giorno con la replica pomeridiana che ha sofferto perché difficilmente riempibile proprio per l’orario lavorativo. Per iscriversi le compagnie pagano una quota d’iscrizione. Gli spazi sono piccoli e il pubblico non troppo numeroso (nelle repliche alle quali abbiamo assistito il numero di persone in platea, contato personalmente, è oscillato dai 14 di Noia ai 27 de La reine de marbre). Quest’anno la sede operativa era all’interno dello scenografico Mercato Centrale. I fondi al Milano Off sono scesi dai 90.000 dello scorso anno ai 14.000 euro di questa edizione. I premi sono interessanti e consistono in repliche dello spettacolo nei Fringe con i quali fa rete il MOFF: AvignoneNew York, le AzzorrePragaHollywoodStoccolma e addirittura il Piccolo di Milano.

 

 

Lo scorso anno fu uno tra gli spettacoli vincitori e venne portato a New York. Parliamo di Be my guest di Monia Baldini. Innanzitutto ci chiediamo perché portare per due anni di fila, nella stessa manifestazione, lo stesso spettacolo. A trent’anni bisogna avere il fuoco dentro, produttività, creatività, essere grafomani. Lo spettacolo in definitiva non c’è, ovvero è basato tutto sulla relazione che la performer riesce a intraprendere e intavolare quella precisa sera con quella data platea. Ecco, alla nostra replica, non è scattato nessun tipo di amore e l’interattività è andata scemando dalla fiducia iniziale fino all’assenza di empatia. Per dominare un pubblico, grande o piccolo che sia il suo numero (paradossalmente più piccolo è più è difficile creare amalgama), ci vuole esperienza, maturità scenica, saper gestire le emozioni, giocare con le risposte del pubblico. Ci vuole dinamicità alle reazioni, velocità d’esecuzione, grinta, piglio che forse a trent’anni è complicato dimostrare. La Baldini ora è una leonessa, adesso una presentatrice, ora è sé stessa (raccontandoci due sprazzi della sua autobiografia ma senza approfondire), ma tutto è lanciato sul palco in maniera superficiale senza il giusto peso, non lasciando il segno, sentendoci, più che guest/ospiti, leggermente prigionieri della situazione. I cambi di personalità non si riescono a percepire e il tutto appare non credibile. Spesso quello che manca a questo tipo di pièce è un occhio esterno, una visione d’insieme, una regia e non basta la voglia di fare teatro per poi farlo realmente. Per uno spettacolo del genere poi, dove metti gli occhi negli occhi ad ognuno degli intervenuti, con un canovaccio ma senza reti di protezione, la difficoltà è ancora maggiore. Il premio dello scorso anno a NY non può aver fatto bene; ci vuole più umiltà e esercitarsi sui limiti. Ci vuole una storia e mettersi in gioco, è per questo che le repliche in America forse hanno fatto peggio, nascondendo i difetti, mettendo la polvere sotto il tappeto e la testa sotto la sabbia. Facendo credere di essere arrivata. Invece c’è ancora da lavorare sodo.

 

 

Altro appuntamento dal sapore vagamente presuntuoso è stato La reine de marbre, con un’ambientazione settecentesca, con l’aggiunta della Commedia dell’Arte e della figura di Arlecchino, che sembra più uno sfoggio della conoscenza delle lingue (potrebbe essere uno spot per dei corsi internazionali) che uno spettacolo compiuto. La regina parla francese, la dama di compagnia spagnolo, Arlecchino veneto e dopo anche greco e ogni tanto spunta anche l’inglese. Gli attori si vede che hanno impostazione e tecnica (classica), sanno stare su un palcoscenico, hanno tempi ma è proprio l’impianto che non riesce a colpire: una storia stralunata, difficilmente comprensibile, della quale se ne perdono le tracce dopo poche scene. Il finale è a dir poco grottesco e surreale con una quantità di temi contemporanei toccati per accogliere in maniera furba tutte le istanze attuali senza in definitiva essere realmente convincente in nessuna con discorsi moralizzanti e spiegazioni geopolitiche su argomenti giganteschi come migranti, la macroeconomia, l’ambiente e pure i vaccini. Menomale che esiste il Teatro Multilingue che con le loro verità ci spiega come gira il mondo e come stanno veramente le cose, illuminandoci, facendoci aprire gli occhi, in questa sorta di manifesto onnisciente che tutto include e che ci ha dipanato tutte le nubi, ci ha chiarito tutti i punti interrogativi, spazzato via tutti i dubbi con la loro saggezza.

 

 

Gioco già visto e non originale, ma comunque gradevole, è quello di I don’t care della Piccola Compagnia Impertinente, quello della sola illuminazione con i cellulari e una coreografia al buio con performer incappucciati di nero. In questo incrocio tra luce e ombre gli schermi folgorano facce, gesti, pose in una riflessione analitica (anche questa già sentita e vista) sui social, il taggare, i mi piace, Facebook, gli account, le amicizie virtuali, le visualizzazioni, le notifiche e la solitudine delle tastiere. Sembrano spermatozoi neri, quindi luttuosi di morte e non di vita, con una sigla di sottofondo che ricorda quella della serie Narcos, che ci ricorda altra morte. Il telefono è ormai diventato la nostra propaggine, il nostro prolungamento e queste figure preferiscono il comodo, asettico virtuale al complicato reale dove esistono i conflitti, i confronti, i contatti. Se manca campo e connessione si sentono perduti e impazziscono. A questa struttura, chiamiamola generazionale, vengono però applicati carichi da novanta (perché il teatro contemporaneo deve necessariamente far riflettere, sempre nelle stesse modalità ricattatorie, soprattutto quando ci sentiamo dalla parte della ragione, diventando una moda più che un’esigenza): il bullismo, con conseguente stupro non dichiarato nella scheda e nel flyer (c’erano diverse bambine ad assistervi), dell’omofobia (come non metterla) fino alla chiusa sulla felicità, sul mondo che gli adulti gli hanno lasciato in eredità, ormai distrutto, sulle colpe, sempre altrui, dichiarazioni moralistiche piene di alibi (da Greta in avanti) che scaricano il barile sempre su altri deresponsabilizzandosi, vittime del cattivo Sistema e dei boomer che gli hanno rovinato l’Erasmus, l’aperitivo e il TikTok. In generale, quando il teatro si fa comizio e affermazione netta, diventando certezza, perde la sua forza intrinseca di dubbio.

 

 

Isola Casa Teatro abbiamo visto le cose più interessanti, a partire da Marta e Olmo, a cura de Il Mutamento Zona Castalia, con due bravi interpreti freschi e naturali, Amandine Delclos e Andrea Chiapasco, ambientato nella Prima Guerra Mondiale tra Italia e Austria. La musica è molto sottolineante dei momenti carichi di pathos e sofferenza e lacrime ma i due ruoli hanno, all’interno della pièce, una crescita, emotiva e d’ensemble, un arco narrativo interessante e uno sviluppo felice. A tratti dal malinconico si sfocia nel melodrammatico cupo e ridondante ma è un esempio di teatro civile ben realizzato. Soprattutto la giovane attrice ha mostrato un grande ventaglio di possibilità e consapevolezza scenica e recitare (questo vale per entrambi) a così stretto contatto con il pubblico è sintomo di carisma, prontezza e professionalità, data anche la giovane età del duo, pronto e molto ben preparato.

 

 

Dopo la Prima Guerra Mondiale ecco trattato un altro nodo ancora aperto del Novecento: i Desaparecidos argentini, a cura della compagnia Il Salto del DelfinoNicola Michele in scena ci porta dentro i terribili anni, dal ’76, della Dittatura militare del grande Paese sudamericano con la conseguente sparizione di oppositori politici, sindacalisti, insegnanti, artisti, intellettuali. E lo fa con l’intuizione di dividersi in tre diversi personaggi, Martino l’italiano che lavora nei cantieri, il Comandante, militare di alto grado, e la Abuela, una delle tante nonne di Plaza de Majo. Ha una maschera perché vuole rappresentare tutti i volti degli scomparsi, e ha un vestito patchwork perché ha addosso tutti gli abiti tolti ai prigionieri prima di essere gettati dagli aerei. Ha un elmetto da cantiere, un cappello con la tesa o un velo in testa e si trasforma, caleidoscopicamente, mentre il chitarrista arpeggia un mantra degli stessi accordi che martellano. Una narrazione viva e vivida, concreta che non fa sconti e con pochi gesti il narratore ci porta nell’orrore, ci conduce in quella sensazione fangosa di impotenza, oppressione, pericolo costante, paura. È sempre importante ritornare su certe storie. Soprattutto quando non c’è stata giustizia, anzi quando la Giustizia si è espressa con un colpo di spugna, mettendoci una pietra sopra e dichiarando i militari non colpevoli, di torture, stupri, omicidi, abusi d’ogni tipo, ruberie, vessazioni, perché avevano agito sotto ordine dei propri superiori.

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Sono laureato in Scienze Politiche alla Cesare Alfieri di Firenze, sono iscritto all'Ordine dei Giornalisti dal 2004 e critico teatrale. Ho scritto, tra gli altri, per i giornali cartacei Il Corriere di Firenze, per il Portale Giovani del Comune di Firenze, per la rivista della Biennale Teatro di Venezia, 2011, 2012, per “Il Fatto Quotidiano” e sul ilfattoquotidiano, per i mensili “Ambasciata Teatrale”, “Lungarno”, per il sito “Words in Freedom”; per “Florence is You”, per la rivista trimestrale “Hystrio”. Parallelamente per i siti internet: succoacido.it, scanner.it, corrierenazionale.it, rumorscena.com, Erodoto 108, recensito.net. Sono nella giuria del Premio Ubu, giurato del Premio Hystrio, membro dell'A.N.C.T., membro di Rete Critica, membro dell'Associazione Teatro Europeo, oltre che giurato per svariati premi e concorsi teatrali italiani e internazionali. Ho pubblicato, con la casa editrice Titivillus, il volume “Mare, Marmo, Memoria” sull'attrice Elisabetta Salvatori. Ho vinto i seguenti premi di critica teatrale: il “Gran Premio Internazionale di critica teatrale Carlos Porto '17”, Festival de Almada, Lisbona, il Premio “Istrice d'Argento '18”, Dramma Popolare San Miniato, il “Premio Città di Montalcino per la Critica d'Arte '19”, il Premio “Chilometri Critici '20”, Teatro delle Sfide di Bientina, il “Premio Carlo Terron '20”, all'interno del “Premio Sipario”, “Festival fare Critica”, Lamezia Terme, il “Premio Scena Critica '20” a cura del sito www.scenacritica.it, il “Premio giornalistico internazionale Campania Terra Felix '20”, sezione “Premio Web Stampa Specializzata”, di Pozzuoli, il Premio Speciale della Giuria al “Premio Casentino '21” sezione “Teatro/Cinema/Critica Cinematografica e Teatrale”, di Poppi, il “Premio Carlos Porto 2020 – Imprensa especializada” a Lisbona. Nel corso di questi anni sono stato invitato in prestigiosi festival internazionali come “Open Look”, San Pietroburgo; “Festival de Almada”, Lisbona; Festival “GIFT”, Tbilisi, Georgia; “Fiams”, Saguenay, Quebec, Canada; “Summerworks”, Toronto, Canada; Teatro Qendra, Pristhina, Kosovo; “International Meetings in Cluj”, Romania; “Mladi Levi”, Lubiana, Slovenia; “Fit Festival”, Lugano, Svizzera; “Mot Festival”, Skopje, Macedonia; “Pierrot Festival”, Stara Zagora, Bulgaria; “Fujairah International Arts festival”, Emirati Arabi Uniti, “Festival Black & White”, Imatra, Finlandia.