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Il sesso: la posizione è ridicola, il piacere passeggero, la spesa eccessiva.
(Lord Chesterfield)
Cos’è tutta questa frenesia e fame di sesso che non ci appaga mai ma che anzi ci svuota e sfibra? Cos’è questa ricerca compulsiva di piacere edonistico che poi ci lascia esterrefatti e stanchi, snervati, sviliti, delusi senza desideri? Cos’è questa voglia di corpi ossessiva che non riesce a calmarci né a soddisfarci, che non placa la nostra sete di vita, che non riesce a mettere un tappo al nostro buco nero che dentro di noi fa rumore? Il sesso, soprattutto slegato dalla procreazione, e soprattutto nel nostro mondo occidentale, è la cura ma anche la malattia, in un microcosmo dove il benessere porta a nevrosi, insicurezze, ansie, patemi. Con il sesso, mettendoci a nudo, fisicamente, ci ritroviamo più veri ma anche più fragili e vulnerabili, più sinceri tendenti all’essenzialità dell’Uomo, alla materia scevra dal pensiero inquinante, a quell’animalità che nei secoli e nelle generazioni abbiamo cercato di allontanare, di nascondere, di abbandonare. Lì, in quegli attimi, perdiamo le corazze, le sovrastrutture, le barriere create per proteggerci.
Il sesso è una trappola della natura per evitare l’estinzione. (Friedrich Nietzsche)
Un palliativo che, dopo averlo messo in atto, non riesce a colmare la Fossa delle Marianne di affetto e amore che desideriamo da quando abbiamo lasciato, infreddoliti, l’utero materno. E’ lì che cerchiamo di tornare, è quella la sensazione, la situazione, la condizione che andiamo perennemente anelando: una tana, un rifugio ovattato, una calma, una pace, una tranquillità che questa agitazione e impazienza quotidiana ci allontana, smodatamente, da noi stessi, dal nostro essere più intimo. Con il sesso si cerca di sconfiggere l’idea incombente della morte appollaiata nei nostri sogni lucidi. Il sesso è cercare di riempire i buchi dell’anima con la carne, è il gioco dei pieni e dei vuoti, che raramente funziona. E dopo il sesso che cosa rimane da fare se non le chiacchiere, quelle imbarazzate, quelle timide, quelle spavalde, togliersi e mettersi le mutande in continuazione, scappare via con una scusa inventata o tentare di riproporre la performance.
Il sesso è la consolazione che si ha quando non si può avere l’amore. (Gabriel García Márquez)
Qualcuno diceva che le chiacchiere stanno a zero, invece qui, nel testo del dubliner Mark O’Halloran, Conversations after sex, all’interno della rassegna Intercity a cura del Teatro della Limonaia quest’anno dedicata alla capitale irlandese, le parole sono quello che rimane dopo essersi mangiati, bevuti, consumati tra le lenzuola. Una donna molto emancipata (Barbara Esposito, la Fiorella Mannoia del teatro nostrano), sempre la stessa, più uomini (sempre interpretati da Gabriele Giaffreda mostratosi in tutto il suo fulgore fisico), in varie sfaccettature dell’universo maschile, e il loro scambiarsi, confrontarsi, scontrarsi tra pudori e arroganze, ricerca di vicinanza e affetto. La regia di Dimitri Milopulos pone i due su un letto sfatto in ventiquattro sequenze, altrettante scene e quadri, come le ore di un giorno, per sviscerare, approfondire e scandagliare cosa c’è sotto la pelle, le mani, le lingue, i corpi. Sotto ci sono sempre traumi e cuori, speranze e illusioni. E questi personaggi si mettono la corazza della sfrontatezza sul numero degli amanti avuti, si fanno forti del non dare peso ai corpi incontrati, ai liquidi che si sono passati.
Il sesso è l’arte di controllare la mancanza di controllo. (Paulo Coelho)
E invece c’è altro: c’è quello con la madre morente, l’eiaculatore precoce, quello ubriaco e il cocainomane in una girandola di rapporti occasionali che shakerano la vita credendo di renderla più frizzante ma finendo per renderla però un po’ più amara e desolata. Sprazzi di gelosia si affacciano così come le malattie veneree, quello che piange, chi ricorda un amante suicida, chi si impasticca, chi ha il toy boy in una confessione che denuncia come l’usarsi per noia non risolva i problemi ma li acuisca. Ficcante, sensuale e penetrante il tappeto sonoro che sciorina e passa dalla ritmata Bad guy di Billie Eilish a Perhaps Perhaps Perhaps di Doris Day, da Mr Saxobeat di Alexandra Stan al tango di I’ve seen that face di Grace Jones. Il finale, dopo tanto sesso parlato, mimato, affrontato, esposto, è un inno all’amore, a quel sentimento conservatore che allontaniamo perché, spesso, non siamo capaci di gestirlo oppure del quale abbiamo tremendamente paura proprio perché non è controllabile dalle nostre vite dove telefono, agenda, impegni e tempo non riescono a trovare lo spazio necessario a rimpolpare l’atavica mancanza di affetto. E quella che ci batte dentro il petto non è il cuore ma è proprio quell’assenza che rimbomba e che fa eco e che ci chiede di fermarci, di respirare.
Il sesso è il più grande niente di tutti i tempi. (Andy Warhol)
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