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Dal 1987 il Premio Scenario ha sfornato talenti.
Prima biennale, poi suddiviso tra Infanzia e Adulti, gli attori non devono avere più di 35 anni. Tra vittorie e menzioni negli ultimi anni hanno trionfati nomi come Mariano Dammacco nel ’93, Emma Dante e Paolo Mazzarelli 2001, Silvia Gallerano e l’allora coppia Sinisi-Santeramo ’03, Gianfranco Berardi e i Sotterraneo ’05, i Babilonia ’07, Codice Ivan e Marta Cuscunà ’09, Carullo-Minasi ’11, i Fratelli Dalla Via ’13, Caroline Baglioni ’15. Il meglio che verrà, i frutti del domani. Quest’anno sono pervenute 123 proposte dalle quali sono stati selezionati 43 semifinalisti dai quali sono stati estrapolati i 12 finalisti che si sono esibiti nei loro 20′ nell’intensa e colorata due giorni al Damslab di Bologna. Hanno vinto (8.000 euro ciascuno) il progetto del cagliaritano Leonardo Tomasi anonimasequestri, mentre la vicentina Valentina Dal Mas con Luisa è risultata vincitore del Premio Periferie. Le due segnalazioni (1.000 euro a testa) sono andate a La costanza della mia vita del genovese Pietro Giannini e Tre voci della lucchese Tilia Auser. Assolutamente ininfluente e folcloristico ma comunque importante, anche il Premio Scenario della Giuria Ombra, una serie di professionisti coordinati da Francesco D’Agostino che ha visto vincitori sempre anonima sequestri, seguito da La costanza e Luisa terza. Nella nostra personale classifica, per quello che può valere, ai primi posti i sei pezzi che più ci hanno colpito, emozionato, toccato, scosso, commosso, in ordine i titoli La costanza della mia vita, ‘E Zzimmare, Due, Pinocchio, anonimasequestri e SS16. Testi dei quali vorremmo siamo curiosi di vedere lo sviluppo, l’evolversi nel formato lungo, lo svolgimento, le ali spiegate.
Pinocchio mangia spaghetti alla bolognese degli emiliani Collettivo Crisi Collettiva può anche essere considerato generazionale ma non limitiamoci a questo giudizio semplicistico e affrettato. Certo sì c’è la Bologna scanzonata delle feste e dell’università e c’è l’adolescenza che finisce e l’entrata, difficile come una doccia fredda per tutti, nell’età adulta. Questo passaggio cronico e irrisolto spesso è il terreno dove le giovani compagnie affondano le mani soprattutto nei loro primi lavori. Parlando di ansia, di lavoro che non c’è o che non corrisponde ai nostri sogni, di fallimento, di inadeguatezza. Tutto vero. Ma qui c’è uno scarto ulteriore in termini di scrittura che si fa urbana e sociale, politica e poetica. La mancanza di spazio che occlude le idee e non fa respirare, il caro affitti del capoluogo che costringe i giovani a trasferirsi nella provincia della periferia perdendo i punti di riferimento soprattutto culturali che avevano coltivato negli anni delle illusioni universitarie, questa Bologna vista come il Paese dei Balocchi mentre tanti Pinocchio ci si abbeverano per poi capire che al massimo potranno fare i ciuchini e tirare i carretti senza molte chance. Una città perennemente in festa, Bologna ti fa sentire parte, Bologna è l’amore per l’amore, così viene descritta. Sogni, aspettative, tutto sembra roseo, risolvibile poi però bisogna fare i conti con la realtà e allora Da Bologna non te lo aspetti che ti allontani come uno schiaffo freddo dopo tanto calore condiviso, che non gli servi più, che gli anni sono passati e che tu ti sia laureato o meno non ha molta importanza perché la maggior parte saranno manovalanza infelice e questo Bologna non te lo aveva detto perché Bologna è un’esplosione e Bologna ti apre la mente. E allora ti ritrovi arrabbiato senza neanche sapere bene contro chi. E giri a vuoto e non trovi la tua strada. Perché Bologna sarà anche una regola, come dice Luca Carboni, ma anche Bologna inganna perché sembra tutto facile ma poi ti presenta il conto.
Due – Canti di balene per pinguini soli della Compagnia Banicolà di Roma vede in scena una coppia che si è lasciata e che adesso ripercorre il loro amore, i momenti caustici, le rotture, le litigate, le grandi scelte di fondo, l’avere o meno figli. Una grande alchimia tra i due attori, Mattia Lauro e Claudia Nicolazzo, sul palco, ironia e profondità nell’analisi dei rapporti sentimentali dei giovani di oggi, non un semplice testo su screzi e amori finiti al macero. Travolgenti nelle loro discussioni e riflessioni, catalizzano l’attenzione, sanno stare su un palco, maneggiano l’arte dell’eloquio e della retorica con una scrittura che non cala mai di stile, che non ha flessioni e che tiene la barra dritta fino all’ultima riga in un, non così scontato, equilibrio tra sarcasmo pungente, ma non pedante, e l’amore, questo oggetto misterioso che tutti provano ma che nessuno capisce mai fino in fondo.
‘E Zzimmare della compagnia RI.TE.NA di Napoli è un testo ombroso e fosco che pare uscito da una costola de La Cupa borrelliana. La lingua napoletana gli conferisce quella struttura e patina arcaica e sublime, gli dona quell’essenza di necessarietà, quel bisogno di verità, quella sincerità teatrale che questa città, e i suoi abitanti, hanno nelle viscere e che è inspiegabile e indomabile. Personaggi affrescati s’affacciano nei loro costumi e nelle storie che una voce fuori campo (scrittura alta e interessantissima) introduce mentre ci intrufoliamo tra questi bassi senza speranza ma ugualmente con tanta vita che pullula e che combatte (perdendo inesorabilmente senza speranza) contro i mulini a vento della vita, giorno dopo giorno con il coltello tra i denti nella disperata lotta per la sopravvivenza. Anche l’ottimo tappeto sonoro contribuisce a impostare l’arcano ambiguo e segreto di questa piece nera. Tra prostitute, femminielli, spacciatori e spaghetti avvelenati si svolge la vita che qui spesso è dramma ma che non lesina sorrisi, che sa essere autoironica, che è sì vittima e rassegnata ma che non si abbatte mai del tutto. Ci ha ricordato Pantagruel del regista rumeno Silviu Purcarete (che vedemmo proprio a Napoli) e Ionesco suite produzione e Theatre de la Ville di Parigi (che abbiamo visto alla Pergola fiorentina).
La costanza della mia vita di Pietro Giannini di Genova ci ha fatto conoscere e apprezzare un talento purissimo nella scrittura e nel modo di stare in scena con grazia, eleganza, senza mai cedere alla lacrima, senza forzare la mano, senza calcare sulla commozione, in un continuo gioco (che ci ha ricordato Ammanniti come la pellicola Jo Jo Rabbit come Molto forte, incredibilmente vicino di Safran Foer o ancora Every Brilliant Thing di Duncan MacMillan ma anche Lo strano caso del cane ucciso a mezzanotte di Mark Haddon) tra un’infanzia che vuole a tutti i costi non capire e che si inventa un mondo parallelo dove le cose possono essere spiegate in un modo alternativo per non guardare in faccia la cruda realtà dei fatti. Un racconto toccante e leggero al tempo stesso e proprio per questo ancora più coinvolgente e trascinante, il tutto con un garbo, una tenerezza e una delicatezza che ci hanno emozionato. Una metafora continua sulla perdita e sul lutto che non si riesce a gestire: Le famiglie sono come le macchine vanno a sbattere e lasciano la gente a piedi. Il piangere che diventa Sudano gli occhi, l’acqua rossa è il sangue, la signora del pongo è la psicologa in una realtà trasformata dal dolore, travolta e stravolta da quegli episodi che o ti fortificano o non ti lasciano scampo. Un incedere maturo. Segnatevi il nome: ne sentiremo sicuramente parlare.
Anche SS16 di Debora Binci di Osimo ci porta su una strada in un racconto amaro tra famiglia, lavoro, pezzi di vita sparsa che, come in puzzle, sono lì gettati in attesa della loro ricomposizione. Anche la Binci è un vero talento tra scrittura, recitazione, cambiando linguaggi, tra parola, musica e canto, utilizzando il dialetto nelle parti più acri come un rafforzativo che sa di infanzia e territorio. Le vacanze con i genitori, la fabbrica fallita dove era impiegato il padre, la malattia. Una grande presenza scenica con una immensa capacità di trascinarti, per una storia, piccola e universale al contempo, che avresti voglia di ascoltare fino in fondo.
Il gruppo sardo che fa capo a Leonardo Tomasi ha sparigliato le carte con anonimasequestri inscenando un vero rapimento, ragionando sugli stereotipi legati all’isola, il lontano Continente, i turisti arroganti, l’Ichnusa, la lingua, Macbettu, i canti viscerali e gutturali dei mamuthones e un castig per un film che si trasforma in reality con un vero incappucciato. Colorito e rissoso, variopinto e muscolare, anonima è una riflessione su che cosa sia l’identità, l’appartenenza, la terra, un bel lavoro intelligente e ricco di spunti che forse però farà più sorridere che pensare, continuando così ad alimentare i consunti e triti cliché collegati a Cagliari e dintorni.
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Bell’articolo, ma vogliamo parlare dei contributi irrisori di questo premio ? Alle menzioni speciali danno 1000 euro che ci fai con 1000 euro? Ai vincitori 8000 ma che produzione è? Con tutto quello che spendono in giuria, selezioni, noleggi teatri e varie a queste giovani compagnie rimangono le briciole.
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